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Dott. Daniele Perugini

La P.A. invecchia… attivamente!  (prima parte)

Che l’età anagrafica media della popolazione europea e, in misura ancor più significativa, quella del nostro Paese si stiano progressivamente innalzando è un dato ormai noto e oggetto di attenzione da parte di chi si occupa di politiche pubbliche, in diversi ambiti, non ultimi quelli sociali e assistenziali. Altrettanto noto e preoccupante è il dato riguardante la crescente anzianità anagrafica degli addetti ai vari apparati della Pubblica Amministrazione, fenomeno che per certi versi riproduce la c.d. “piramide dell’età” della popolazione italiana ma che subisce anche il negativo influsso di altri specifici fattori. Occorre quindi ridisegnare politiche di gestione delle risorse umane che capitalizzino le competenze esistenti, facilitino l’adattabilità al cambiamento, sostengano il percorso verso la quiescenza e favoriscano la corretta trasmissione delle conoscenze tra le generazioni.

 

In questo primo contributo verranno analizzati i dati distributivi principali degli organici della P.A. e si individueranno elementi e tecniche a supporto delle politiche pubbliche e del senior management volti a favorire l’invecchiamento attivo (il c.d. active ageing) e a coordinare il mix generazionale, aspetti strettamente correlati alla gestione del welfare e alla prevenzione e gestione dei rischi sui luoghi di lavoro. Prossimamente verranno invece presentati alcuni studi e buone prassi già avviate nelle pubbliche amministrazioni, riguardanti iniziative di integrazione e ricambio intergenerazionale, finalizzate a sviluppare, perseverare e manutenere il capitale umano costituito dai lavoratori “esperti”.

In attesa del nuovo Conto Annuale che sarà pubblicato a breve dalla Ragioneria Generale dello Stato, si farà qui riferimento agli ultimi dati ufficiali disponibili, quelli relativi all’anno 2014, valutando che, nell’aggiornamento delle informazioni, al di là dei valori assoluti registrati, saranno presumibilmente confermati gli andamenti osservati.

QUALCHE DATO SULLA P.A.  Oltre tre milioni di addetti, considerando il solo “personale stabile” (cioè quello con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, comprensivo della dirigenza a tempo determinato e con l’esclusione, ad esempio, del personale scolastico precario e dei volontari delle Forze armate e dei Corpi di Polizia), per un universo variegato che vede oltre il 29% degli occupati nella Scuola, circa il 22% nel Servizio Sanitario Nazionale e il 15% complessivamente impiegato nelle Forze Armate e di Polizia. Sono questi i principali elementi quantitativi degli organici della Pubblica Amministrazione rappresentati nell’ultimo Conto Annuale disponibile, quello relativo al 2014. Occorre aggiungere che, a livello centrale, l’apparato ministeriale assorbe poco più del 5% degli addetti, mentre le Regioni (incluse quelle a statuto speciale) e le altre Autonomie locali si avvalgono in pianta stabile di oltre mezzo milione di operatori, pari a più del 18% della forza lavoro così delineata. Il restante personale è stabilmente impiegato presso le altre pubbliche amministrazioni, centrali e territoriali ed un cospicuo numero di altri enti ed istituzioni. Nonostante una doverosa annotazione sulla cessazione del personale dei comparti sicurezza-difesa (stante le diverse regole di pensionamento) e l’influenza esercitata dai nuovi ingressi (che, secondo la stessa RGS, saranno verosimilmente stimabili in circa 300.000 unità nel complessivo periodo 2014-2019), la distribuzione degli organici, nelle rilevazioni di prossima pubblicazione, non si discosterà presumibilmente di molto da questi, seguendone gli andamenti tendenziali. Peraltro, le riduzioni di addetti degne di maggiore attenzione sono quelle già realizzate nel corso del 2015 nei Comuni e nelle Province, nel SSN, nei Ministeri, negli Enti di ricerca e negli Enti pubblici non economici: queste riduzioni, più o meno consistenti, sono la diretta conseguenza sia delle politiche di blocco del turn over e della riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, sia dei vincoli posti per il rispetto dei vincoli di bilancio e dei parametri di spesa del Patto di Stabilità.

UNO SGUARDO ALL’ETÀ. L’insieme dei dipendenti pubblici può essere statisticamente considerato come una “popolazione” ed è quindi possibile costruirne una specifica “piramide dell’età”, al fine di indagarne la struttura ed osservarne le modifiche nel tempo, sebbene non ci si possa certamente aspettare che la forma della distribuzione assomigli troppo ad una piramide. I gradini di questa rappresentazione grafica corrispondenti alle classi d’età quinquennali utilizzate nel Conto annuale, mostrano mutamenti apparentemente lenti, ma progressivi nell’ambito di un orizzonte temporale mediamente lungo. Come sottolineato dalla stessa RGS, “già nel 2001 la distribuzione riferita al totale dei dipendenti non assomigliava affatto ad una piramide, quanto piuttosto ad un rombo, avendo i valori più elevati concentrati nelle classi centrali di età”, probabilmente a causa di due fenomeni che avevano iniziato a manifestarsi nel decennio precedente: il regime limitativo delle assunzioni (con il progressivo blocco del turn over, sospinto, peraltro, da modifiche alle regole per l’accesso alla pensione) ed il mutamento delle professionalità richieste dagli enti pubblici in conseguenza del processo di informatizzazione della PA. La Ragioneria Generale, alla luce dei dati del 2014, ha rilevato che, con il passare degli anni, la forma assunta dalla piramide dell’età anagrafica del pubblico impiego “è ormai quella di un fungo o di una piramide rovesciata”, con la classe modale individuata nella fascia corrispondente a 50-54 anni, seguita da vicino dalla classe successiva, quella relativa all’età compresa tra i 55 e i 59 anni. Dal rapporto della RGS emerge poi che, nel periodo 2001-2014, l’età media riferita al totale del personale è cresciuta di quasi sei anni, con differenze notevoli fra i vari comparti: con la nuova declinazione del blocco del turn over operata con la legge di stabilità 2016 i tecnici di via XX Settembre sostengono che è pressoché certo il superamento dei 50 anni nell’età media complessiva forse già a partire dalle rilevazioni relative al corrente 2016. Gli stessi tecnici, nelle proiezioni per il 2019, ipotizzano uno scenario in cui la distribuzione complessiva degli addetti della PA, distinti per età anagrafica, vedrebbe la presenza di oltre il 49% di ultra55enni (in prevalenza donne), con un’incidenza significativa di over65, lasciando presagire, nel medio periodo, una progressiva accelerazione delle uscite dal mondo del lavoro pubblico.

UNA CONSIDERAZIONE.  Tutto ciò rende ormai necessario un governo del processo che si affranchi dalla mera ottica del risparmio sul costo del personale: la diminuzione della quota di popolazione potenzialmente attiva nel mercato del lavoro costringe a riflessioni sulla tenuta dei sistemi di welfare che proprio la P.A., almeno in passato, era tenuta ad assicurare. Le politiche pubbliche devono quindi ora affrontare il tema dell'intreccio fra l'invecchiamento della società, l'invecchiamento della forza lavoro della PA e la necessità di ridefinire qualitativamente e quantitativamente i servizi che lo Stato dovrà continuare ad assicurare, in modo più efficiente e con una nitida visione d’insieme, sfruttando appieno questa straordinaria opportunità di rinnovamento ed ottemperando, al contempo, ad un chiaro ed ineludibile obbligo verso la collettività. Come è emerso da un’indagine sul tema dell’age management nelle aziende italiane, presentata recentemente dalla società Randstad (una multinazionale olandese, seconda agenzia per il lavoro al mondo, che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane), in Italia la popolazione invecchia e le soglie anagrafiche dei lavoratori si spostano progressivamente in avanti di 15/20 anni, non solo per l’innalzamento dell’età pensionistica, ma anche in conseguenza del tardivo ingresso nel mondo del lavoro e della precarizzazione che questo sta bruscamente assumendo. Appare evidente che, in contemporanea, cambiano gli stessi luoghi di lavoro (nei quali ora si incontrano generazioni di operatori diverse tra loro più che in passato) ed anche le sfide che le organizzazioni devono affrontare, nella consapevolezza che ogni lavoratore “senior” costituisce un valore da trasmettere, tutelare ed accompagnare armonicamente nel difficile percorso di retirement. In ogni organizzazione, pubblica o privata, occorre perciò saper sapientemente assicurare la continuità del ciclo vitale del lavoro, integrando innovazione e tradizione: gli operatori senior sono depositari di competenze uniche e rare, portatori di motivazioni e passioni di sicuro valore che vanno interconnesse e valorizzate nell’ambito dell’introduzione di nuovi modelli organizzativi e produttivi.

UN CONTESTO CRITICO. In questo scenario, fin da subito, si appalesano chiaramente due problematiche. La prima riguarda il modo in cui si compongono le differenze generazionali (ad esempio tra over 50 e under 35) che influenzano il clima aziendale e il concreto funzionamento degli uffici. Altrettanto preoccupante è poi la giusta valorizzazione delle classi di età mature, in modo che l'età non diventi un problema per il loro efficiente impiego. È però comprensibile che l'invecchiamento dei dipendenti possa influire su una adeguata evoluzione delle competenze e sull'andamento della produttività e possa quindi costituire un’ulteriore voce di costo del lavoro. In effetti, nel lavoro immateriale (professionale, creativo, manageriale) la produttività di un sessantenne rappresenta un valore sicuramente positivo in termini di how-know, di esperienza e di problem solving. Ma la seniority può invece trovare dei limiti nella obsolescenza culturale e tecnologica di altre attività lavorative, specie quelle tecnico-operative, soggette a continui mutamenti e all’innovazione tecnologica. L’evidente gap è poi maggiore nelle linee di produzione e nei settori dove per adempiere alle mansioni è implicito uno sforzo fisico o, perlomeno, è necessario un accettabile livello di benessere e salute anche per il senior, non comparabile con quello di addetti più giovani. D’altro canto, diversi studi indicano come all'aumentare dell'età, pur diminuendo la performance fisica e la capacità di apprendimento, in compenso si acquisiscano altre competenze quali, ad esempio, l'esperienza intesa come conoscenza approfondita del contesto lavorativo, delle procedure e delle casistiche più frequenti e, non meno importanti, le abilità relazionali.

POLITICHE E NUOVE STRATEGIE MOTIVAZIONALI. L'importanza della gestione del fattore età è sostenuta da diverse istituzioni pubbliche e think tank privati, attraverso studi ed esperienze (anche a livello comunitario) in grado di supportare datori di lavoro, sindacati ed organizzazioni nell’individuare le principali aree di intervento di una strategia di age management, sia nell'ambito pubblico che privato. Sicuramente la motivazione è uno degli aspetti più delicati da gestire nell’efficace impiego dei lavoratori senior, in quanto il loro atteggiamento verso questo prolungamento "forzato" della vita lavorativa gioca un ruolo per niente secondario: come confermato anche da specifiche ricerche di mercato, l'interesse a rimanere più a lungo nell'amministrazione sembra infatti circoscritto a una parte, neanche tutta, della componente più qualificata e istruita dei lavoratori anziani, spesso con ruoli direttivi. In una fase già resa turbolenta dal blocco degli stipendi e delle progressioni nel pubblico impiego, l'impossibilità legale di incidere attraverso la leva retributiva spinge verso strategie motivazionali non monetarie, da un lato capaci di incidere sull'evoluzione dei compiti lavorativi e sull'aggiornamento delle competenze e, dall’altro, di intervenire su alcuni aspetti che determinano le condizioni di impiego (come, ad esempio, la flessibilità d'orario e la graduale transizione verso la quiescenza), i benefit  e la tutela del benessere psico-fisico del senior, statisticamente più esposto a patologie tipiche dell’età ed allo stress da lavoro correlato (definito come la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste).

A PICCOLI PASSI.  Il primo passo che ogni organizzazione dovrebbe compiere è quello di definire una mappatura dei propri dipendenti, per individuare nella popolazione over50 opportunità e criticità (soprattutto in termini di percezione del clima lavorativo, motivazione, livello di impiegabilità e grado di obsolescenza professionale) ed individuare il miglior programma di re-employment per il proprio contesto aziendale.  Sono molti gli strumenti già individuati, specie nel privato, a supporto delle strategie motivazionali non monetarie e alcuni di questi sono stati già adottati (a piccoli passi…) anche da qualche amministrazione pubblica:

-    Lifelong learning: è fondamentale che i percorsi di formazione, apprendimento e sviluppo professionale, da garantire lungo l'intero arco della vita lavorativa, non discriminino i lavoratori senior ed anzi ne recepiscano nei metodi le peculiari esigenze formative. Il contesto attuale non è tra i piuù favorevoli in questo ambito, in quanto i tagli

obbligatori subiti dalle risorse relegano sostanzialmente la formazione nelle pubbliche amministrazioni a momenti episodici governati dall'emergenza o, in casi specifici, dalla legge (ad esempio, obbligo formativo in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e nel campo della prevenzione della corruzione).

-    Mentoring e mix generazionale: la reingegnerizzazione di alcuni processi, la previsione del lavoro in team eterogenei per età, il coinvolgimento dei senior in qualità di esperti in interventi formativi verso le nuove generazioni, l’attivazione di processi di reverse mentoring e l’organizzazione di momenti seminariali favoriscono la circolazione dei saperi e delle esperienze e realizzano quell’indispensabile travaso di competenze che assicura all’ente la continuità dell’azione amministrativa e dei servizi resi. Nello stesso tempo tali interventi, con il supporto di servizi di coaching, rivitalizzano l’organizzazione ed i singoli, responsabilizzando il senior all’interno di un percorso di re-assessment, di gratificazione e di presa di coscienza del ruolo verso la seniorship che gli è stata affidata.

-    Orario di lavoro: una maggiore flessibilità può rispondere all'evoluzione delle capacità fisiche o mentali dei lavoratori senior, in funzione della tipologia della loro attività, giustificando un adeguamento dell'orario di lavoro (o l’adozione di strumenti per lo smartworking e il telelavoro) che, al contempo, li accompagni gradualmente verso la quiescenza lavorativa senza però far subire loro alcuna penalizzazione sul fronte del reddito e, soprattutto, della copertura contributiva pensionistica. Analogamente, una diversa concezione del tempo potrebbe consentire al senior, attraverso forme di flessibilità, la possibilità di assistere familiari in difficoltà.

-    Mobilità interna e riconversione del personale: con il mutare delle necessità e delle abilità, è opportuno valutare per i senior degli specifici percorsi di mobilità sia orizzontale che verticale, accompagnando tali processi con adeguati e continui supporti formativi.

-    Piani sanitari senior: premesso che il benessere psicofisico di ogni lavoratore è un fattore determinante per la produttività, nel minimizzare i rischi alla salute di tutti i lavoratori è comunque auspicabile una maggiore sensibilità verso i lavoratori più anziani, in un’ottica di prevenzione e cura delle patologie tipiche dell’invecchiamento. In questo ambito potrebbero rientrare l’offerta di un’assistenza medica aggiuntiva (con piani di prevenzione specifica, check up periodici ed incentivi all’adozione di stili di vita salutari) e la possibilità di congedi individuali per cure e riabilitazione. Nei senior assume poi particolare rilievo la prevenzione del rischio di stress da lavoro correlato, spesso affrontato solo da un punto di vista formale e senza una visione globale. La percepita inadeguatezza a fronteggiare i mutamenti organizzativi adottati sulla spinta di cambiamenti nelle tecnologie, la difficoltà nelle relazioni gerarchiche e professionali, il ritardo forzato nell'uscita dalla vita attiva e, di contro, la “paura del dopo” sono elementi di stress che giustificano una costante e non più rinviabile presenza all'interno delle pubbliche amministrazioni di figure professionali atte ad offrire anche un adeguato supporto psicologico e di counseling.

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