L’accordo prevede, peraltro, l’impegno a verificare entro i prossimi dodici mesi le disposizioni contrattuali della previdenza complementare, valutando l’opportunità di individuare nuovi strumenti e modalità atti ad incentivare l’adesione ai fondi pensione negoziali dei dipendenti pubblici.
In tale contesto, a margine dell’Accordo, le parti hanno convenuto “sulla necessità di adottare ogni utile iniziativa, nell’ambito dei rispettivi ruoli, finalizzata ad accrescere la cultura previdenziale”, rafforzando le attività di comunicazione istituzionale delle amministrazioni pubbliche verso il proprio personale.
Riparte quindi dal 2016 una nuova stagione per la previdenza complementare del Pubblico Impiego, dopo che alterne vicende avevano visto protagonisti due dei fondi pensioni negoziali ai quali un dipendente pubblico può aderire.
Nel nostro Paese, almeno fino ad un paio di decenni fa, la “previdenza complementare” era un argomento di ristretto interesse, appannaggio per lo più della dirigenza del mondo privatistico (che lo considerava un “benefit” aggiuntivo nella contrattazione di natura retributiva) o di pochi altri - generalmente dotati di sufficienti possibilità economiche e di propensione al risparmio - che avevano percepito lo strumento dei fondi pensione quale ottimo investimento e, al contempo, potenziale salvadanaio per la propria vecchiaia.
Oggettivamente non sono poi molti i passi determinanti finora compiuti nello sviluppo delle forme pensionistiche complementari (in quanto finalizzate ad integrare la prestazione pensionistica “pubblica”, quella cioè erogata dagli enti/casse previdenziali in forza di un obbligo contributivo stabilito per legge), soprattutto in ragione del lungo tempo trascorso.
Di certo, a seguito delle riforme previdenziali che più volte si sono succedute in questo periodo - da quelle avviate nei primi Anni Novanta, per poi arrivare, con un’accelerazione dai ritmi spesso ingiustificatamente vorticosi, al tourbillon messo in atto dagli ultimi Governi, con provvedimenti a volte schizofrenici o, addirittura, deleteri e comunque non di rado inappropriati nel metodo e nella misura - si è progressivamente avviato un tendenziale depauperamento degli assegni pensionistici di base.
Ciò si potrà constatare in misura sempre crescente man mano che nel computo della prestazione pensionistica “pubblica” aumenterà la quota di pensione calcolata con il c.d. “contributivo”, sistema legato ad indicatori di rivalutazione del montante soggetti agli andamenti (meramente teorici) dell’economia nazionale e a fattori di conversione in rendita periodicamente ridotti in relazione all’evoluzione della speranza di vita della popolazione.
In altri termini, nei prossimi decenni si assisterà ad un progressivo e generalizzato impoverimento della popolazione non attiva, tanto più marcato quanto meno precoce, costante e adeguata sarà stata la contribuzione versata per tali soggetti durante la carriera lavorativa.
Da diversi anni gli studi attuariali, con riferimento alle generazioni di lavoratori più giovani, prospettano infatti un tasso di sostituzione (cioè il rapporto tra l’ultimo stipendio e il primo rateo pensionistico) tendenzialmente inferiore al 50-60%, così da rendere non più una “scelta”, ma un “bisogno” l’adesione a forme pensionistiche complementari, quali che siano.
La previdenza complementare, quindi, non va più vista, come in passato, quale un “benefit” aziendale, né come un “lusso” per benestanti quanto, piuttosto, come un valido strumento per soddisfare il “bisogno previdenziale” di contenere il gap tra il tenore di vita sostenuto durante la fase attiva e le minori risorse finanziarie disponibili in conseguenza della cessazione dell’attività lavorativa.
Peraltro, in un contesto economico sfavorevole come l’attuale, nel quale la perdita del potere di acquisto dei salari caratterizza ormai anche le scelte quotidiane delle famiglie, diventa sempre più arduo contemplare con serenità la costruzione di maggiori tutele individuali contro l’incertezza del futuro previdenziale pubblico, aderendo a forme di previdenza complementare poiché queste necessariamente implicano la perdita di quote di retribuzione già nell’immediato.
Aderire alla previdenza complementare, infatti, significa accantonare regolarmente una parte delle proprie risorse finanziarie durante la vita lavorativa per ottenere una pensione che si aggiungerà a quella corrisposta dalla previdenza obbligatoria.
Proprio per questa fondamentale funzione di risparmio a fini previdenziali, lo Stato riconosce alle diverse forme di previdenza complementare specifiche agevolazioni fiscali di cui altre forme di risparmio non beneficiano e che valgono anche nel caso che si effettuino versamenti a favore di familiari fiscalmente a carico.
La previdenza complementare è quindi uno strumento attraverso il quale i lavoratori, attraverso un’autonoma scelta individuale, decidono di effettuare un investimento sul proprio futuro pensionistico, previa valutazione della loro situazione lavorativa, del patrimonio personale e delle aspettative pensionistiche.
Informare e promuovere una scelta consapevole del lavoratore è uno dei compiti che il legislatore affida, tra gli altri, al datore di lavoro: nello specifico, ciascuna amministrazione pubblica - in virtù della propria prossimità e per il ruolo terzo riconosciutogli dal lavoratore - è chiamata a fornire ai propri dipendenti ogni utile informazione (ma non una consulenza finanziaria/previdenziale, ovviamente, che resta demandata agli organismi competenti ed a professionisti autorizzati), supportando nel compito le parti promotrici e gli altri attori della previdenza complementare,.
Per questo occorre che ciascun datore di lavoro, privato e pubblico, individui operatori addetti e ne favorisca la formazione specifica sui bisogni previdenziali, sugli strumenti offerti dal welfare, sulle regole di funzionamento, sulle garanzie ed i vantaggi per il lavoratore.
Il quadro normativo di riferimento della previdenza complementare è stato da ultimo delineato con il decreto legislativo n. 252/2005 ma tale riforma non ha finora trovato applicazione per il settore del pubblico impiego a causa del mancato esercizio della delega prevista nella legge n. 243/2004: il decreto stesso ha previsto che ai Fondi pensione rivolti ai dipendenti pubblici sia applicata la precedente normativa contenuta nel decreto legislativo n. 124/1993.
In effetti, il quadro normativo vigente prevedeva fin dal 1993 la possibilità di costituire anche per i dipendenti pubblici forme di previdenza complementare ma alcuni aspetti di natura contributiva e contrattuale ne hanno frenato uno sviluppo adeguato, che ancor oggi è di certo più modesto di quanto è stato realizzato, seppur senza risultati eclatanti, nel settore privato.
Mentre i fondi negoziali per i lavoratori del settore privato, infatti, avevano avuto modo di svilupparsi da tempo, oltre un decennio si è reso necessario - nonostante i primi interventi normo-regolamentari e contrattuali avviati già alla fine degli Anni Novanta e le successive specifiche previsioni nei contratti di comparto stipulate successivamente - per completare il percorso istitutivo dei fondi negoziali attualmente attivi per i dipendenti pubblici, Espero e Perseo Sirio.
D’altro canto è proprio nel settore pubblico che il blocco pluriennale del rinnovo dei contratti ha significativamente intaccato lo status di “middle class” e l’apparente benessere che, negli anni d’oro dell’economia nazionale, si era accompagnato, nell’immaginario collettivo, al mito del “posto fisso”.
Minata la potenzialità economica e depauperata nei fatti la propensione al risparmio, a frenare lo sviluppo della previdenza complementare nel pubblico impiego si erano aggiunte le accennate difficoltà finanziarie nel reperire le risorse contributive di parte datoriale (il contributo datoriale rappresenta il beneficio più diretto ed immediato) e la necessità di trasformare i preesistenti TFS in TFR, al fine di renderli funzionali al finanziamento delle forme complementari.
La risoluzione graduale di tali nodi contrattuali e normativi ha comunque comportato un notevole ritardo nell’avvio e nello sviluppo di fondi pensione per i dipendenti pubblici, in costanza di altri fattori debilitanti tra cui la scarsa consapevolezza dei propri bisogni previdenziali (specie tra le generazioni più giovani), l’incertezza sulla destinazione del TFS (tradizionalmente destinato, nelle economie familiari, a scopi precisi, quali l’estinzione di mutui contratti, il matrimonio dei figli, l’acquisto di “beni rifugio” a garanzia della vecchiaia), la lacunosa conoscenza del funzionamento e delle garanzie del welfare complementare e, di conseguenza, una marcata diffidenza verso le relative proposte (peraltro incerte a priori nel quantum, a fronte di un tradizionale trattamento di fine servizio che, se non noto, era almeno ipotizzabile con una certa attendibilità).
In sostanza, ad oggi, anche per gli impiegati pubblici (in analogia a quanto avviene per i lavoratori dipendenti del settore privato, seppur con alcune specificità dei singoli ordinamenti) la copertura previdenziale può essere attuata mediante i cosiddetti “tre pilastri” del welfare:
la previdenza pubblica obbligatoria, che costituisce il c.d.. “primo pilastro” previdenziale, è appannaggio pressoché totale del coacervo di gestioni previdenziali ex Inpdap (CPDEL, CPS, CPI, CPUG e CTPS), le cui competenze sono ora affidate all’Inps a seguito della soppressione dell’ente previdenziale delle amministrazioni pubbliche avvenuta nel dicembre 2011. Fino a pochi anni fa l’intera previdenza pubblica era gestita a ripartizione, secondo il sistema “retributivo”, affiancato e progressivamente sostituito, a regime, dal sistema “contributivo” (a parziale capitalizzazione individuale, ma sostanzialmente ancora erogato all’interno di un meccanismo a ripartizione);
il “secondo pilastro”, è costituito principalmente dai fondi negoziali (e, con ambito delimitato, dai fondi territoriali Laborfonds e Fopadiva, che accolgono adesioni anche tra i dipendenti pubblici operanti nei rispettivi territori di riferimento, in quanto previsto solo nelle Regioni ad autonomia speciale che hanno competenza primaria in materia di trattamento giuridico/economico del personale degli enti e amministrazioni locali), forme pensionistiche complementari gestite esclusivamente secondo il sistema a capitalizzazione individuale, la cui origine è di natura contrattuale e alle quali possono aderire su base volontaria i dipendenti pubblici che appartengono a specifici comparti di contrattazione:
il primo a costituirsi tra i fondi pensione negoziale del pubblico impiego è stato Espero (accordo del 14/3/2001 e successivo atto pubblico del 17/11/2003), dedicato ad oltre un milione di lavoratori della Scuola e AFAM (dirigenti, personale docente e ATA), operativo dal 1° gennaio 2005 e che ha superato i 100.000 aderenti, su un potenziale bacino d’utenza di oltre un milione di addetti;
dopo lunghe trattative e problematiche di natura economico-contrattuale (principalmente legate alle difficoltà nel reperimento delle risorse finanziarie necessarie a sostenere gli oneri in capo al datore di lavoro pubblico con riguardo alle specificità retributive dei comparti interessati), alcuni anni sono stati costituiti i fondi Perseo e Sirio, riservati, rispettivamente, al personale di Regioni, Autonomie locali, Sanità e a quello di Ministeri, Enti pubblici non economici, Presidenza del Consiglio dei ministri, Enac e Cnel, Agenzie fiscali, Coni e Università che hanno già sottoscritto apposito accordo. Peraltro, dall’ottobre 2014, è stato attuato un progetto di unificazione dei due fondi (fusione per incorporazione di Sirio in Perseo) volto a conseguire maggiore efficienza, economicità di gestione, attraverso economie di scala a beneficio della redditività e nell’interesse degli aderenti. La decisione è stata motivata sia dall’invito promosso da Covip (l’autorità amministrativa indipendente che, tra l’altro, ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione, a tutela degli aderenti e dei loro risparmi destinati a previdenza complementare) e Corte dei conti - che avevano sottolineato l’eccessiva numerosità dei fondi pensioni con limiti dimensionali non adeguati - ma anche dalle difficoltà che entrambi i fondi avevano riscontrato nel raggiungere la “base associativa minima “, cioè la quantità di aderenti necessaria entro la scadenza dei termini autorizzatori previsti per procedere all’elezione degli organi dei fondi pensione e, soprattutto, per dare avvio alla gestione finanziaria del patrimonio. Al fondo di previdenza complementare Perseo Sirio hanno aderito circa 20.000 lavoratori, pur afferendovi un’ampia platea di personale pubblico contrattualizzato, pari ad oltre un milione e settecentomila addetti.
Restano attualmente fuori dall’accesso ad una copertura previdenziale negoziale i lavoratori pubblici cosiddetti non contrattualizzati (quali i professori universitari, gli appartenenti alle carriere prefettizie e diplomatiche) e, per mancanza di specifici accordi, anche tutti i dipendenti del comparto della sicurezza e le forze armate.
il “terzo pilastro” previsto dal legislatore è sostanzialmente costituito da quelle forme pensionistiche individuali, specificamente individuate dal legislatore, offerte e gestite dal mondo assicurativo e finanziario: fondi pensione aperti, polizze e piani individuali pensionistici, ai quali possono aderire tutti coloro che, indipendentemente dalla situazione lavorativa (lavoratore dipendente o autonomo/libero professionista), intendano costruirsi una rendita integrativa della pensione di base. Nel caso di adesione da parte dei lavoratori pubblici a forme di terzo pilastro, va sottolineato che essa è a carattere individuale e non prevede alcun apporto da parte del datore di lavoro pubblico, né è possibile conferirvi il proprio TFR. In nessuno dei comparti di contrattazione del pubblico impiego è stata infatti definita alcuna adesione collettiva, su base contrattuale, a fondi aperti offerti dal mercato finanziario, bancario, assicurativo.
Anche nei fondi negoziali riservati al pubblico impiego la partecipazione è volontaria ed avviene sulla base dei contratti collettivi di riferimento, essendo consentita esclusivamente a coloro che appartengono alle categorie di lavoro a cui si applica il contratto o l’accordo istitutivo del Fondo di riferimento, stipulato tra ARAN e organizzazioni sindacali.
La previdenza complementare si basa sul cosiddetto regime della contribuzione definita, in cui la posizione individuale che genererà la prestazione complementare dipende dall’importo dei contributi versati alla forma pensionistica complementare, dalla durata del periodo di versamento e dai rendimenti ottenuti, al netto dei costi, con l’investimento sui mercati finanziari dei contributi versati.
Durante la partecipazione al piano pensionistico complementare, il lavoratore vedrà effettivamente confluire sulla propria posizione individuale costituita presso il Fondo il contributo del datore di lavoro, il proprio contributo (che, secondo le singole previsioni statutarie, è possibile integrare volontariamente rispetto al contributo minimo previsto) ed i rendimenti conseguiti con l’investimento di tali risorse sui mercati finanziari.
L’ammontare dei contributi è determinato in riferimento alla retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR oppure su di una base più ridotta indicata dalla contrattazione collettiva.
Come accennato, altra componente essenziale nel finanziamento del piano pensionistico complementare è data dal TFR: considerate le peculiarità che caratterizzano (anche) in questo ambito i lavoratori contrattualizzati del pubblico impiego, la normativa attuale prevede che i pubblici dipendenti possono aderire ai Fondi pensione di riferimento conferendo il TFR maturando, previa trasformazione degli eventualmente preesistenti TFS (indennità di buonuscita, Premio servizio o indennità di anzianità) contestualmente dell’adesione al Fondo stesso. Più in particolare:
i dipendenti pubblici assunti a tempo indeterminato prima del 1° gennaio 2001, con la sottoscrizione del modulo di adesione al Fondo pensione optano obbligatoriamente per il passaggio dal TFS al TFR. Questi lavoratori cosiddetti “optanti” potranno esercitare tale opzione entro il 31 dicembre 2020 (termine appena prorogato con l’Ipotesi di Accordo citato all’inizio di questo contributo) e devolveranno al fondo pensione solo una quota del TFR maturando (pari al 2% della retribuzione utile), mentre la restante parte di questo viene accantonata figurativamente e rivalutata virtualmente nelle forme di legge presso la competente gestione ex Inpdap (ora Inps), per poi essere conferita al fondo pensione solo all’atto della cessazione, perché quest’ultimo possa prevedere alle prestazioni statutariamente previste. Peraltro, solo per questi lavoratori optanti è previsto un ulteriore accantonamento figurativo pari all’1,5% della base contributiva di riferimento ai fini TFS, contabilizzato e rivalutato dall’Inps e poi conferito anch’esso al fondo al momento della cessazione del lavoratore;
i dipendenti pubblici a tempo determinato o assunti a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2001, ai quali si applica già l’istituto del TFR, devolvono invece al Fondo pensione negoziale l’intero TFR maturando (pari al 6,91% della retribuzione utile) e non devono esercitare alcuna opzione per iscriversi alla previdenza complementare. Anche in questo caso il TFR viene accantonato figurativamente, incrementato e rivalutato virtualmente nelle forme di legge dall’Inps presso la competente gestione ex Inpdap, per poi essere conferito al fondo pensione solo all’atto della cessazione, perché quest’ultimo possa prevedere alle prestazioni statutariamente previste.
L’intenzione di promuovere la conoscenza sulle forme negoziali riservate al pubblico impiego e le peculiarità in questo ambito (fin qui solo in parte accennate) rinforzano la necessità di approfondire in successivi interventi le caratteristiche di “Espero” e “Perseo Sirio”: prossimamente verranno descritti il funzionamento, le garanzie, le prestazioni, nonché le opportunità ed i vantaggi offerti ai lavoratori pubblici dalla previdenza complementare.