Di fronte a tale fatto, la prima cosa che stupisce è che non sia stato reiterato un percorso che in passato avevamo salutato in modo particolarmente positivo quando, in occasione di novità analoghe, finalmente l’INPS, la Funzione Pubblica ed il Ministero del lavoro avevano concordato una interpretazione univoca della fattispecie.
Infatti, in occasione della emanazione della legge n° 183 del 4 novembre 2010 (“Collegato lavoro”) e in occasione della emanazione del D.Lgs n° 119 del 18 luglio 2011, attuativo della delega di cui alla legge n° 183/2010, vi fu un lavoro comune fra i soggetti sopra citati che portò alla emanazione di criteri applicativi univoci e congiunti: in occasione della legge uscirono le circolari dell’INPS n° 155 del 2 dicembre 2010 e di Funzione Pubblica n° 13 del 6 dicembre 2010, mentre in occasione del D.Lgs. uscirono le circolari di Funzione Pubblica n° 1 del 3 febbraio 2012 e dell’INPS n° 32 del 6 marzo 2012.
La positività di quel percorso fu tale da non necessitare poi di ulteriori interventi chiarificatori.
L’altra cosa che stupisce è il notevole ritardo con cui l’INPS ora interviene “da solo” su una vicenda che già era comunque chiara, ma che in Italia, poiché “non si muove foglia che circolare non voglia”, era rimasta priva di applicazione per ben 10 mesi.
Se si esclude il messaggio n° 5171 del 21 dicembre 2016 in merito alle pensioni di reversibilità nell’ambito delle unioni civili, la norma è rimasta priva di effetti.
Vogliamo però essere ottimisti e pensiamo che le cose scritte nella circolare INPS n° 38/2017, per quanto rivolte ai soli dipendenti privati, non possano che essere applicate in modo analogo anche ai dipendenti pubblici.
Innanzitutto va sottolineato come l’INPS correttamente tenga distinti gli effetti delle due novità, sottolineando da un lato che la norma sulle unioni civili fra soggetti dello stesso sesso produce i suoi effetti sia ai fini della fruizione dei permessi di cui all’articolo 33 della legge n° 104/1992, sia ai fini del congedo straordinario di cui all’articolo 42, comma 5, del D.Lgs. n° 151/2001, mentre la sentenza della Corte Costituzionale produce i suoi effetti solo ai fini dei permessi di cui all’articolo 33 della legge N° 104/1992.
Infatti, poiché l’articolo 1, comma 20, della legge n° 76/2016 prevede che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”, va da sé che essendo il coniuge uno dei principali soggetti deputati a chiedere sia i permessi 104, sia il congedo straordinario, analoga fattispecie si applicherà d’ora in poi anche alla parte di una unione civile.
La sentenza della Corte Costituzionale, poiché dichiara illegittima la legge n° 104/1992 nella parte in cui non include il “convivente” fra i soggetti deputati a fruire dei permessi ivi previsti, esplicherà i suoi effetti appunto solo ai fini dei predetti premessi.
In virtù di tali premesse ci sono quindi situazioni diverse fra congedo straordinario e permessi 104 che vanno trattate separatamente.
Per quanto riguarda il congedo straordinario, che sconta solo gli effetti delle unioni civili, va ricordato che la normativa di cui all’articolo 42, comma 5, del decreto legislativo n° 151/2001, nel testo rivisitato dal decreto legislativo n° 119/2011, fissa un ordine di priorità dei soggetti aventi diritto al beneficio che comincia con il coniuge ed arriva fino ai parenti e affini di terzo grado.
Ora non vi è dubbio che, con le disposizioni di cui alla legge n° 76/2016, il congedo a questo punto potrà essere fruito anche dalla parte di un unione civile con gli stessi criteri riservati al coniuge che già era individuato come il beneficiario prioritario.
La sequenza risulterà quindi la seguente:
- il “coniuge convivente” / la “parte dell’unione civile convivente” della persona disabile in situazione di gravità.
- il “padre o la madre”, anche adottivi o affidatari, della persona disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del “coniuge convivente” / della “parte dell’unione civile convivente”;
- uno dei “figli conviventi” della persona disabile in situazione di gravità, nel caso in cui il “coniuge convivente”/ la “parte dell’unione civile convivente” ed “entrambi i genitori” del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- uno dei “fratelli o sorelle conviventi” della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il “coniuge convivente” / la “parte dell’unione civile convivente”, “entrambi i genitori” ed i “figli conviventi” del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- un “parente o affine entro il terzo grado convivente” della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il “coniuge convivente” / la “parte dell’unione civile convivente”, “entrambi i genitori”, i “figli conviventi” e i “fratelli o sorelle conviventi” siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Va da se che sia in presenza di coniuge convivente o di parte dell’unione civile convivente che non presentino le condizioni sopra ricordate e che non abbiamo diritto al congedo per effetto della posizione lavorativa “non dipendente” o perché non prestino attività lavorativa, non ricorre mai la possibilità di usufruire del congedo da parte delle figure sottostanti.
L’altro aspetto importante da sottolineare è che la norma delle unioni civili non ha efficacia in modo assoluto su tutte le vicende che si ricollegano al “coniuge”, tant’è che non è stato coinvolto l’articolo 78 del codice civile che regolamenta i rapporti di “affinità”.
Ne deriva che in caso di costituzione di una unione civile non si costituisce alcun rapporto di affinità con i parenti dell’altra parte, per cui la parte dell’unione civile può chiedere il congedo, ricorrendone le condizioni, solo per i propri parenti ma non per quelli dell’atra parte dell’unione civile.
Per quanto riguarda infine l’attestazione della presenza della “unione civile”, così come accade per il “coniuge” si continuerà a fare riferimento alle attestazioni del soggetto verificabili presso gli archivi dello stato civile del comune.
Per quanto riguarda invece i permessi di cui all’articolo 33 della legge n° 104/1992, che subiscono gli effetti sia delle unioni civili che della sentenza della Corte Costituzionale la situazione è più variegata.
Per quanto riguarda le “unioni civili” trovano applicazione molte delle considerazioni sopra effettuate, tranne quella relativa alla elencazione delle priorità di accesso tra le varie figure.
L’articolo 33 della legge n° 104/1992, nella versione aggiornata per ultimo dalla legge n* 183/2010, prevede infatti che i beneficiari dei permessi siano il coniuge o un parente o affine entro il secondo grado, posti tutti sullo stesso piano di priorità, dal quale si può scendere fino al terzo grado di parentela o affinità solo se i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Ne deriva che, fermi restando tutti meccanismi sull’accertamento delle convivenze e sulla loro inefficacia al fine di individuare gli affini, la parte dell’unione civile entra in scena in modo assolutamente paritario con il coniuge.
Ne deriva quindi che uno dei componenti dell’unione civile, oltre ad avere diritto ai permessi per i suoi parenti, entro il secondo o terzo grado, e per l’altro componente, può altrettanto generare analogo diritto ai propri parenti, ma l’altro componente avrà gli stessi trattamenti senza però generare direttamente o indirettamente dei soggetti collaterali.
Per quanto riguarda invece la sentenza della Corte Costituzionale relativamente alla figura del “convivente” questo entra nel novero dei beneficiari semplicemente come il coniuge, fermo restando ovviamente il principio assoluto del “referente unico”.
Il problema vero è quello della qualificazione del convivente per la quale dovrà farsi riferimento alla “convivenza di fatto” come individuata nuovamente dalla stessa disposizione sulle unioni civili, anche se da tale convivenza derivano effetti molto diversi rispetto a quelli delle unioni civili.
Il comma 36 dell’articolo 1 della legge n° 76 del 2016 in base al quale «per convivenza di fatto si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile» e accertata ai sensi del successivo comma 37.
Secondo il comma 37 è prevista la “dichiarazione anagrafica”, per cui risulterà convivente non tanto colui o colei che dichiara semplicemente di esserlo, bensì colui o colei che risulta alla anagrafe iscritta nello stesso “stato di famiglia”.
Questa è quindi la situazione attuale.
Viste però le motivazioni che hanno portato la Corte Costituzionale a pronunciare la sentenza dalla quale siamo partiti è a questo punto presumibile attendersi una analoga estensione del diritto al congedo straordinario anche al “convivente”; non resta che trovare un soggetto che avesse le stesse condizioni e che avesse voglia di iniziare il contenzioso poiché il primo soggetto che lo proponesse avrebbe la strada spianata.