I temi legati alla prevenzione della corruzione hanno ormai catalizzato non solo l’attenzione dell’opinione pubblica - ormai quasi avvezza agli scoop e alle denunce pubbliche di maladministration - ma, già da in paio di decenni, anche quelli dell’agenda del legislatore che, più volte e con alterne risultanze, ha tentato di disegnare un quadro normativo e regolamentare volto a contrastare il fenomeno e a punire i comportamenti illeciti, sul quale si è poi progressivamente plasmato un processo di riorganizzazione delle amministrazioni, in particolare quelle pubbliche, con strutture e figure caratterizzate da ruoli specifici e, spesso, innovativi rispetto al passato.
Più di altre, quella del Responsabile della prevenzione della corruzione è stata una delle figure maggiormente oggetto di costanti aggiornamenti che ne rendono interessante l’analisi, perché in tali evoluzioni appaiono latenti le attuali tendenze istituzionali in materia. La disciplina, in parte contenuta nella legge n. 190 del 2012, presenta oggi un frastagliato rimando a diverse disposizioni che, in tempi successivi, ne hanno ampliato, approfondito ed amplificato i contenuti. Occorre rilevare, da una parte, come l’ampiezza e la complessità degli incarichi affidati al Responsabile descrivano chiaramente un ruolo trasversale e, allo stesso tempo, d’impulso e coordinamento del sistema di prevenzione. D’altro canto, è opportuno anche evidenziare i costanti sforzi del legislatore e delle Autorità parallele (in particolare dell’ANAC) nel calibrare al meglio la posizione del Responsabile e nell’individuare una strategia organizzativa. Tuttavia, se, da un lato, il nostro apparato normativo risulta più che sufficiente, è poi nell’applicazione pratica e nell’effettiva capacità di prevenzione e repressione dei comportamenti corruttivi da parte delle istituzioni che gli effetti della normazione risultano inadeguati.
LE PRINCIPALI AZIONI EUROPEE. L’attenzione per il fenomeno della corruzione, da parte della comunità internazionale, è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni come il prodotto di un intenso processo di conoscenza. Studi scientifici e specialistici, in particolare, sono riusciti a mettere in evidenza, in termini macro, gli impatti economici della fenomenologia corruttiva. È stato dimostrato come la corruzione rappresenti un ostacolo al regolare funzionamento dei mercati, determinando distorsioni concorrenziali che si sostanziano nello spostamento di denaro da investimenti produttivi al pagamento di tangenti. Tale processo involutivo, incide negativamente anche sui tassi di crescita del “Sistema Paese” in quanto i mercati, se giudicati inclini alla corruzione, sono tendenzialmente caratterizzati da una bassa attrattività di flussi di capitali. Non deve stupire che le principali organizzazioni internazionali - comprese le banche, (Fondo monetario internazionale) e quelle dedite alla promozione dello sviluppo economico (OCSE) - abbiano rivolto la loro attenzione alla questione, cercando di promuovere ed incentivare le istituzioni nazionali a rivedere profondamente gli strumenti di contrasto alle pratiche corruttive. Nel merito, la “Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione” (sottoscritta nel 2003 e meglio conosciuta come Convenzione di Merida) richiede una specifica riflessione: se prima erano prevalsi indirizzi dottrinali ed accademici principalmente rivolti all’aspetto punitivo del fenomeno corruttivo nell’ambito delle transazioni commerciali internazionali, la Convenzione rappresenta un’inversione di tendenza. In essa, infatti, vengono enunciate disposizioni a carattere generale, al fine di configurare un sistema organizzativo condiviso di prevenzione della corruzione. A dimostrazione di un diverso approccio al fenomeno, viene richiesto ai singoli Stati di rivedere sostanzialmente i propri apparati burocratico-amministrativi, attraverso la creazione di specifici organi indipendenti rivolti ad attivare ed implementare specifiche politiche di riforma. Nella stessa direzione si muovono anche le istituzioni europee: nel 2009 il Gruppo di Stati contro la Corruzione (GRECO), elabora un rapporto di analisi sull’Italia. In esso, viene descritta la percezione della corruzione nel nostro Paese come “fenomeno consueto e diffuso”. In questo contesto emerge un modello organizzativo transnazionale, “calato dall’alto”, dove è evidente una visione del fenomeno corruttivo, rivolta alle ragioni, alle occasioni delle prassi corruttive e ai fattori che ne favoriscono la diffusione. Tra questi, senza dubbio, l’arretratezza e la farraginosità delle regole che caratterizzano le procedure amministrative, ma anche i bassi livelli di standard morali e senso civico propri dei funzionari: una zona di intervento, in sostanza, che si focalizza sul versante amministrativo, in particolare su quei fatti, che seppur penalmente irrilevanti, sono la premessa di condotte corruttive. Il contesto europeo invita quindi gli Stati nazionali ad adottare politiche efficaci di lotta alla corruzione che contemplino un progetto di prevenzione guidato da specifici attori, caratterizzato da appositi strumenti di programmazione e animato dal concetto chiave dell’integrità. L’obiettivo è, da un lato, diffondere la cultura della legalità e una consapevolezza nelle amministrazioni pubbliche e nella società civile circa gli effetti negativi dei comportamenti non etici; dall’altro, introdurre nelle pubbliche amministrazioni, meccanismi diretti a rendere le amministrazioni trasparenti, controllabili socialmente, con ricadute virtuose sul rendimento delle istituzioni.
LA PREVENZIONE IN ITALIA. Quelli in cui nel nostro Paese si dà forma concreta al fenomeno corruttivo sono anni caratterizzati da una crescente necessità di cambiamento, in un contesto nazionale emergenziale molto complesso e dai contorni piuttosto estesi. La legge del 6 novembre 2012, n. 190, rappresenta quindi un cambio di passo per l’Italia. È il prodotto di differenti istanze di cambiamento esterne ed interne e, prima di tutto, la legge è esecuzione diretta della citata Convenzione delle Nazioni Unite. In particolare, cerca di dare adeguatamente risposta alle indicazioni emerse a livello internazionale nella quali si era posto l’accento sull’esigenza di un programma organico di interventi rivolti ad attivare un’azione di prevenzione dei fenomeni corruttivi. Con essa, il legislatore tenta di adottare per la prima volta un approccio globale alla fenomenologia corruttiva, definendo un sistema di regole per contrastare il fenomeno in ambito amministrativo, incentrando l’agire sull’azione preventiva prima ancora che su quella repressiva. La corruzione si presenta come una delle principali cause del dissesto delle finanze pubbliche, di inefficienza dei servizi e perdita di fiducia dei cittadini verso le istituzioni: è uno dei fattori di disgregazione sociale, all’origine di elevati costi non solo economici. Il concetto di corruzione si palesa nella sua accezione più estesa, quale abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati, in una definizione che trova fisiologica associazione con quella di “maladministration”, intesa come assunzione di decisioni devianti rispetto all’interesse generale per l’improprio condizionamento da parte di interessi particolari. La declinazione del termine “prevenzione” è la finalità generale dell’intero impianto normativo, alla quale sono connesse una pluralità di misure volte ad altrettante finalità fondamentali per l’amministrazione: trasparenza, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa; promozione dell’etica pubblica; valutazione della performance. In questa prospettiva sistemica, la prevenzione è anche intesa come attività di programmazione strategica specificatamente rivolta a contrastare fenomeni corruttivi, attraverso specifiche azioni quali l’identificazione dei rischi, l’individuazione delle misure rivolte a ridurne la portata, la definizione dei rimedi nel caso di non applicazione di dette misure, il monitoraggio sul funzionamento e sull’osservanza delle misure. Il modello organizzativo individuato dal legislatore richiama, da una parte, le esperienze internazionali e, dall’altro, presenta analogie con i modelli di organizzazione e controllo del settore privato. Il Piano di prevenzione della corruzione è uno degli elementi centrali di tale modello, un documento di carattere programmatico, già ampiamente diffuso a livello internazionale, che ha lo scopo di indicare le aree di maggior rischio di corruzione e individuare le soluzione organizzative dirette a ridurre tale rischio. Seguendo tale esperienza, il legislatore italiano individua due canali di pianificazione: uno nazionale e uno locale. Nel primo è individuata una struttura centrale, l’Autorità nazionale anticorruzione la quale, oltre a definire, nel piano nazionale, le strategie di prevenzione, ha il compito di assicurarne la corretta attuazione da parte delle amministrazioni; di analizzare cause e rilevare potenziali fattori di rischio di specifici fenomeni corruttivi; di rilevare centri di responsabilità e best practice. In parallelo, a livello periferico, le singole amministrazioni dovranno, sulla base degli indirizzi contenuti nel piano nazionale, definire rischi specifici di corruzione ed interventi organizzativi diretti a prevenire tali rischi. In sostanza, vi è una presa di coscienza da parte del legislatore supportata da una logica secondo la quale è necessario moltiplicare le strutture interne, in modo che possano fungere da barriere per fronteggiare il rischio di maladministration nelle singole realtà amministrative, decidendo di affidare ad apposite figure il compito di predisporre uno specifico Piano triennale, da aggiornare annualmente.
VERSO UN MODELLO A RETE? A distanza di qualche anno dall’attivazione di una tale strategia, appare utile indagare sul modo in cui le amministrazioni hanno risposto alla regolamentazione posta a prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi. In particolare, è utile indagare “se e come” la figura del Responsabile sia stata accolta e, ad oggi, risulti efficacemente operativa a livello organizzativo. A tal fine, appaiono preziosi i dati rilasciati dalla stessa Autorità, rilevati in occasione del monitoraggio sui PTPC e inseriti nei piani nazionali. Dall’insieme delle verifiche che si sono succedute dal 2013 ad oggi, il dato che spicca ha purtroppo un valore negativo, in quanto il Responsabile risulta essere una figura isolata nella gestione del sistema di prevenzione. Tale condizione sembra essere il prodotto di più fattori che la stessa Autorità ha voluto evidenziare. Nelle prime fasi di implementazione della disciplina è sicuramente prevalsa un’applicazione puramente formale, in quanto gli amministratori si sono più preoccupati di rispettare le disposizioni, piuttosto che comprenderne in profondità le ragioni: un problema ben noto, connesso fisiologicamente ad una latente resistenza al cambiamento ancora presente tra il personale di alcune amministrazioni pubbliche. Da questa mera “logica dell’adempimento”, peraltro, discendono tutta una serie di condizionamenti attraverso i quali è possibile comprendere il parziale disinteresse manifestato nei confronti della disciplina da parte degli altri soggetti potenzialmente coinvolti nella governance della prevenzione. Questi ultimi, infatti, hanno preferito defilarsi e non apportare il proprio contributo, sostenuti da un dato formale che impropriamente fissava solo verso il Responsabile la distribuzione delle responsabilità connesse al sistema di prevenzione. Così il Responsabile, in prima battuta, si è limitato a rispondere ai quesiti formali, cercando di limitare quanto più possibile lo spettro di proprie inadempienze di cui essere poi chiamato a rispondere. Tali premesse hanno spiegato i loro effetti in misure operative, inserite nei PTPC, prive di contenuto e sostanza, scardinate dagli altri strumenti di programmazione, manchevoli di un riscontro organizzativo nelle singole realtà amministrative. Seppur apprezzando i correttivi posti dal legislatore alla disciplina, insieme agli interventi della stessa Autorità, appare evidente una volontà di fondo di riconsiderare l’intero sistema dei compiti e delle responsabilità. In primo luogo, sul piano degli incarichi, sono state estese le competenze, anche attraverso disposizioni più definite rispetto alle precedenti. L’organo di indirizzo, per esempio, vede ora la sua sfera d’azione altamente ampliata: definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza (comma 8, articolo 1, legge n. 190/2012) ed introduce le necessarie modifiche organizzative per assicurare autonomia ed effettività alle attività svolte dal Responsabile (comma 7, articolo 1, della medesima legge). Un altro elemento di assoluta novità è la previsione introdotta dall’articolo 41 del decreto legislativo n. 97/2016 ed inserita nel comma 8bis, dell’articolo 1, della legge n. 190/2012, che stabilisce per gli OIV compiti di verifica circa la coerenza dei Piani triennali di prevenzione con gli obiettivi fissati dagli altri strumenti di programmazione. In questi due casi si esplicano due differenti azioni: l’estensione degli incarichi in materia di prevenzione e la fissazione di forme di collaborazione, entrambe rivolte a supportare il sistema di prevenzione e, in particolare, l’attività del Responsabile. Questa operazione legislativa - che si può definire di “inclusione” della disciplina anticorruzione - non è nuova, in quanto, in realtà, nel coacervo di disposizioni normative ed indicazioni fornite dall’Autorità nei piani nazionali, è possibile percepire come il modello di prevenzione sia stato concepito sulla collaborazione, sullo scambio, sulla partecipazione di più soggetti. Gli obblighi informativi a favore del Responsabile, per esempio, previsti come parte integrante del PTPC (lettera c), comma 9, articolo 1, legge n. 190/2012) assumono valenza generale nelle Linee guida, in quanto riconosciuti a carico di tutti i soggetti coinvolti già nella fase di formazione del Piano, nella fase di verifica, funzionamento e fino all’attuazione delle misure adottate (Piano nazionale anticorruzione 2016). La collaborazione, in sostanza, deve essere continua, attiva dalla nomina del Responsabile ed estesa per tutto il ciclo di prevenzione. A conferma di tale visione, rileva quanto riportato nell’articolo 8 del DPR n. 62/2013 ove è previsto un dovere di collaborazione dei dipendenti nei confronti del RPCT, dovere la cui violazione comporta una responsabilità disciplinare. Fin dalla definizione del sistema di prevenzione, quindi, viene auspicata la realizzazione di un intervento corale all’interno dell’amministrazione, basato sul coordinamento-scambio di una serie di soggetti che coadiuvano il lavoro del Responsabile. La collaborazione è uno strumento imprescindibile per realizzare la prevenzione, in quanto favorisce la condivisione di obiettivi e così la diffusione delle “buone pratiche”, una migliore comprensione delle misure adottate da parte dei soggetti coinvolti e, quindi, una maggiore probabilità di una concreta efficacia degli strumenti e delle azioni poste in essere. Ecco come gli interventi legislativi trovano naturale collocazione in un progetto ben più ampio che vede nel “modello a rete” una strategia di implementazione da perseguire. In tali casi, è evidente il passaggio dalle raccomandazioni, purtroppo spesso disattese, a chiare disposizioni legislative che definiscono ruoli e responsabilità. Non stupisce, in quest’ottica, l’ampio passaggio dedicato agli OIV nel comma 8-bis dell’articolo 1, della legge n. 190/2012, nel rinnovato interesse verso il processo di coordinamento tra Piani triennali e gli altri strumenti di programmazione. Processo descritto e consigliato, in realtà, fin dalle prime Linee guida del 2013. Da non sottovalutare, poi, le altre potenzialità sottese a tali azioni di scambio/coordinamento: esse possono divenire veicolo operativo di quei fattori, ≪differenziazione≫ e ≪semplificazione≫, definiti di “successo” per migliorare le strategie di prevenzione. Qualora attivate in maniera consapevole, le misure coinvolte possono essere il riflesso delle reali condizioni strutturali e strategiche dell’amministrazione e perciò fornire ai Piani un bagaglio di specificità ed originalità tali da superare la logica adempimentale. In parallelo, la figura del Responsabile è stata coinvolta in recenti modifiche che ne hanno esteso la sfera di competenza e, allo stesso tempo, rafforzato i poteri di interlocuzione e controllo. Gli incarichi, infatti, risultano essere numerosi ed estesi in differenti settori, che comportano svariate attività quasi sempre di natura bilaterale, ovvero comportano, ai fini della loro esplicazione, il necessario coinvolgimento di altri organismi. Di converso, il legislatore ha ritenuto necessario calibrarne al meglio l’ambito delle tutele e delle responsabilità. Su questo, basta sottolineare quanto indicato negli aggiustamenti legislativi, con riguardo alle raccomandazioni in ordine ai criteri di selezione che tentano di assicurare maggiore indipendenza per il Responsabile e a evitare eventuali collusioni e pressioni indebite (ANAC, Piano nazionale anticorruzione 2016, delibera n. 831 del 2016). Le stesse disposizioni introdotte in materia di revoca del Responsabile comportano un’estensione generalizzata della previsione dei doveri di segnalazione all’ANAC di eventuali misure discriminatorie nei confronti del RPCT (si veda in proposito il comma 7, articolo 1, legge n. 190/2012, introdotto dall’articolo 41 del decreto n. 97/2016) mentre le indicazioni in materia di accertamento dei casi di inconferibilità ed incompatibilità prevedono, sullo sfondo, interessanti profili di tutela. La disciplina, in ragione della posizione e della delicata funzione del Responsabile, prefigura l’intervento diretto dell’ANAC, che non si limita alla vigilanza ma ha anche la possibilità di collaborare “alla pari” con il Responsabile (Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili. Determinazione n. 833 del 2016). Un aggiustamento, questo, forse sentinella di un’attuale tendenza a voler rendere concretamente attiva l’Autorità, attraverso strumenti più incisivi rispetto al passato.
CRITICITÀ E PROSPETTIVE. Nonostante gli sforzi del legislatore, numerosi ed importanti, ad oggi permangano alcune criticità di fondo, messe ancora una volta in evidenza dal monitoraggio ANAC sui PTPC pubblicati per il triennio 2017-2019 (delibera n. 1208/2017). Nonostante siano aumentate le amministrazioni che hanno adottato le misure di prevenzione, emergono comunque diversi punti di caduta, quali una significativa difficoltà nell’operazione di coordinamento dei Piani con gli altri strumenti di programmazione; uno scarso coinvolgimento, in particolare nei Ministeri, dell’organo di indirizzo politico e degli attori interni; la diffusa mancanza di garanzie, nei confronti del Responsabile, a fronte di dichiarati poteri di interlocuzione e controllo, di un adeguato supporto conoscitivo e operativo o di una struttura di supporto. Dai dati pubblicati, è possibile scorgere sicuramente un miglioramento rispetto al passato, anche se persistono ancora le richiamate tendenze adempimentali. In tali casi pesa la mancanza di una percezione sistemica del sistema organizzativo (e non solo di quello di prevenzione della corruzione), da cui discende la difficoltà di compiere una programmazione unitaria. Ciò si manifesta innanzitutto sotto forma di mancanza di coordinamento-scambio tra gli strumenti di programmazione e gli attori coinvolti, interpretabile, per certi versi, come una persistente resistenza al cambiamento (elemento, questo, in realtà già registrato da autorevoli ricerche dirette a verificare l’impatto delle politiche introdotte in epoca recente sull’organizzazione della Pubblica Amministrazione). La riflessione sul “modello a rete”, latente nella strategia di prevenzione, sembrerebbe tuttora scontrarsi con una radicata cultura al formalismo e con una struttura organizzativa forse ancora legata alle precedenti caratteristiche di impianto verticistico-piramidale, sia sotto il profilo culturale che sotto quello strutturale. Numerose sono le “richieste di aiuto” che arrivano dai diretti interessati, ovvero da coloro che dirigono e coordinano la macchina amministrativa: nei Ministeri, ad esempio, le strutture di supporto al Responsabile della prevenzione sono in gran parte ridotte a minimi termini, con scarsità di personale e di risorse logistico-strumentali. Il paradosso è proprio questo: a fronte di incarichi sempre più importanti e gravosi non vi è stato in corrispondenza un adeguato impegno strutturale e finanziario, registrandosi, piuttosto, un atteggiamento quasi di timore da parte dei funzionari nel ricoprire certi ruoli. Le figure coinvolte nel processo di prevenzione spesso non sono identificati nel ruolo di garanti della legalità ed, anzi, sopravvive una recondita percezione della loro attività come invasiva nella normale gestione degli affari amministrativi. A ciò si aggiunga la prospettiva di un incarico esposto a gravose responsabilità, che in genere si sovrappone ad uno precedente ed al quale, solitamente, viene riservato uno scarso riscontro anche dal punto di vista della remunerazione economica aggiuntiva. In conclusione, appare evidente che gli interventi necessari andrebbero rivolti su più fronti, tutti complessi perché connotati da diverso valore, non esistendo un'unica formula, un'unica strada da intraprendere. È evidente che con la legge n. 190 si è dato avvio ad una nuova stagione di riforme, nella quale l’integrità è principio ispiratore e che, è innegabile, fino ad oggi si sono fatti sforzi enormi per migliorare un certo modello organizzativo. È tuttavia necessario che il processo di maturazione colmi alcune lacune a livello logistico-operativo, sostenendo il raggiungimento degli obiettivi prefissati e rinsaldando la fiducia nel sistema della prevenzione. Prima di dare giudizi, occorre attendere la maturazione del sistema, che è lenta ma progressiva, tenendo al contempo presenti alcune caratteristiche insite proprio nel processo di normazione e regolamentazione, che in questo ambito non può che essere evolutivo. La disciplina va pertanto costantemente aggiornata, in un’opera di continua calibratura sui numerosi aspetti della normativa e con un’attività che deve necessariamente esser frutto di riflessioni elaborate sulla base di indagini operate sul campo. Proprio per questa peculiarità e per il processo di adeguamento del tessuto amministrativo e degli attori che lo caratterizzano, la partita è ancora aperta.