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L’APPALTATORE DEVE DICHIARARE (AI SENSI DELL’ARTICOLO 80 DEL CODICE) TUTTE LE VICENDE PREGRESSE CONCERNENTE FATTI RISOLUTIVI, ERRORI O NEGLIGENZE AI FINI DI UN COMPIUTO GIUDIZIO DI AFFIDABILITÀ

di Stefano Usai

Nelle dichiarazioni sul possesso dei requisiti – e/o dichiarazione di assenza di cause di esclusione, preclusive all’affidamento – l’appaltatore non dispone di alcun “filtro valutativo” e non può sostituirsi al giudizio/valutazione del RUP  a cui occorre segnalare ogni fatto risolutivo e/o situazione pregressa senza omissioni. In questo modo, con un approdo particolarmente rigoroso anche rispetto a certe “aperture” del Consiglio di Stato, ha avuto modo di esprimersi il Tar Lombardia, Brescia, sez. II, con la recente sentenza del 27 ottobre 2018 n. 1025.

L’appalto e le cause di esclusione

La vicenda prende spunto dall’ovvio obbligo dell’appaltatore di dichiarare (con il DGUE) ai sensi dell’articolo 80 del codice dei contratti (come già l’articolo 38 del pregresso codice) ogni fatto/provvedimento che costituisca elemento da considerare circa la propria moralità professionale e, quindi, la legittimazione ad essere parte di un contratto pubblico.

Nel caso di specie, l’appalto aveva ad oggetto l’affidamento di un servizio di pulizia e disinfestazione di ambienti ospedalieri, con una partecipazione in consorzio di cui, una impresa esecutrice, nel predisporre la dichiarazione sui requisiti (a cui era tenuto lo stesso consorzio) ha omesso di segnalare un provvedimento di risoluzione contrattuale e pertanto lo stesso consorzio veniva escluso dalla  gara.

Le ragioni del convenuto

L’impianto delle censure del ricorrente erano dirette ad evidenziare la scorretta estensione analogia della causa  di esclusione di cui all’articolo 80, comma 5, lett. c)  che in tema di “cessazione anticipata” di pregressi contratti esige che  un provvedimento di  “risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio”.

Nel caso concreto, invece, la risoluzione del contratto risultava giudizialmente contestata, con la precisazione che la mancata indicazione della risoluzione era frutto di mero errore.

La differente ipotesi concreta (rispetto a quella fissata dal legislatore)  portava quindi il ricorrente ad rilevare l’inesistenza dell’obbligo di dichiararla considerato che si tratta di “mero errore materiale, come dimostrato dal fatto che in una serie di recenti dichiarazioni rilasciate a svariate Stazioni Appaltanti (…) era stata regolarmente depositata una dichiarazione contenente la precisazione dell’intervenuta risoluzione contrattuale”.

Alla luce di quanto, secondo il dogliante, “la precedente risoluzione non avrebbe potuto assurgere a prova di dubbia integrità o affidabilità, in quanto, pur avendo la Stazione Appaltante potere discrezionale di individuare situazioni atipiche rispetto all’elencazione di cui alla lett. c) dell’art. 80, non potrebbe stravolgere una ipotesi tipizzata per la quale il legislatore ha previsto una linea interpretativa diversa, come nel caso della precedente risoluzione contrattuale per la quale è richiesto che non via sia stata contestazione giudiziale”.

Il ragionamento del Collegio

Il giudice si dimostra di diverso avviso respingendo le ragioni del ricorso.

In primo luogo viene respinto il “teorema” del mero errore materiale “estrinsecantesi in una svista, una disattenzione o in una accidentale dimenticanza, attesa la rilevanza dell’intervenuta risoluzione contrattuale non dichiarata a fronte delle plurime ed univoche prescrizioni previste dalla legge di gara relativamente alle dichiarazioni poste a carico dei soggetti partecipanti (anche in termini di conseguenze di eventuali dichiarazioni non veritiere), in considerazione del principio di auto responsabilità cui i concorrenti devono uniformarsi nelle procedure ad evidenza pubblica e, infine, alla luce della stessa previsione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs n. 50/2016”.

Secondo questo giudice, inoltre,  il fatto che la risoluzione risultasse contestata non comporta un esonero dell’appaltatore dall’onere di dichiarare tale circostanza “al fine di consentire alla Stazione Appaltante di effettuare le verifiche relative alla cause di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), D.Lgs n. 50/2016”.

L’intensità dell’obbligo dichiarativo dell’operatore economico

La sentenza quindi ribadisce quanto sia intenso l’obbligo dell’appaltatore, che richiede l’ingresso in un procedimento amministrativo (nel caso di specie finalizzato all’acquisizione di una commessa), di dichiarare ogni aspetto che riguarda la propria moralità professionale al fine di consentire un giudizio corretto da parte dell’amministrazione che intende aggiudicare l’appalto.  

Si legge in sentenza, di conseguenza, che “l’obbligo dichiarativo (…), che sussiste in capo al concorrente e che deve riguardare indistintamente tutte le vicende pregresse concernente fatti risolutivi, errori o altre negligenze comunque rilevanti ai fini della formazione del giudizio di affidabilità, costituisce espressione dei generali principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale, posti a presidio dell’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali facenti capo alla pubblica amministrazione”.

La conseguenza ovvia è che al concorrente, non è consentito scegliere “quali delle dette vicende dichiarare sulla base di un soggettivo giudizio di gravità (il c.d. filtro valutativo), competendo quest’ultimo soltanto all’Amministrazione committente, che dispone di una sfera di discrezionalità nel valutare in che termini eventuali precedenti professionali negativi incidano sull’affidabilità di chi aspira a essere affidatario di un contratto”.

D’altra parte la stessa discrezionalità (tecnico/valutativa) riconosciuta al RUP potrà essere correttamente esercitata solo se si “dispone di tutti gli elementi necessari a garantire una compiuta formazione della volontà (Consiglio di Stato, sez. V, 15 dicembre 2016, n. 5290; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2018, n. 956 che richiama Consiglio di Stato, sez. V, 15 dicembre 2016, n. 5290; 4 ottobre 2016, n. 4108; 26 luglio 2016, n. 3375; 19 maggio 2016, n. 2106; 18 gennaio 2016, n. 122; 25 febbraio 2015, n. 943; 11 dicembre 2014, n. 6105; 14 maggio 2013, n. 2610; Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4455; Sez. III, 5 maggio 2014, n. 2289)”.

Coordinate ermeneutiche le predette, per quanto riferite all’articolo 38, comma 1, lett. f) del previgente codice degli appalti, devono  tuttora ritenersi valide anche nella vigenza della nuova normativa di cui al citato art. 80 comma 5 lett. c) del D. Lgs n. 50/2016 (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 5 giugno 2018, n. 3691).

Gli orientamenti giurisprudenziali

L’intensità dell’obbligo dichiarativo è stato ribadito in tempi recenti (Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 12 luglio 2018, n. 757) e si è chiarita  anche la posizione dell’ANAC. Ed in effetti, le Linee guida nr. 6/2016 nell’ultima versione aggiornata prevedono che “gli operatori economici, ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento, sono tenuti a dichiarare, mediante utilizzo del modello DGUE, tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio la loro integrità o affidabilità”.

Ed allora, sempre secondo questa giurisprudenza, appare  “evidente, pertanto, che colui che partecipa ad una gara per l’assegnazione di un appalto pubblico deve segnalare qualunque fatto anche solo ipoteticamente rilevante rispetto al giudizio di affidabilità che compete alla Stazione appaltante e che per questo deve discriminare i fatti segnalati rilevanti da quelli che non lo sono dovendo motivare in caso di presenza di elementi critici sia l’ammissione che l’esclusione del concorrente”.

Il Collegio dimostra, inoltre, di  non ignorare  la diversa – più sfumata  - posizione assunta dal Consiglio di Stato, sez. V,  con la sentenza del 25 gennaio 2018, n. 2063 per il quale non vi sarebbe in realtà l’onere di “segnalazione relativamente ad un episodio risolutivo che, in quanto ancora sub iudice e non avente dunque i connotati della definitività” e ciò per espressa previsione legislativa ma tale posizione si discosta.

La sentenza in esame  ha fatto proprio, infatti,   l’orientamento opposto secondo il quale “il pregresso inadempimento rileva a fini escludenti, qualora assurga al rango di “grave illecito professionale”, tale da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico, anche se non abbia prodotto gli effetti risolutivi, risarcitori o sanzionatori tipizzati. Pertanto, è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione della portata di pregressi inadempimenti che non abbiano (o non abbiano ancora) prodotto questi effetti specifici; in tale eventualità, però, i correlati oneri di prova e di motivazione sono ben più rigorosi ed impegnativi rispetto alle ipotesi esemplificate nel testo di legge e nelle linee guida (cfr. le puntuali ed approfondite riflessioni contenute in Consiglio di Stato, sez. V, 3 marzo 2018, n. 1299)”.

In definitiva deve, quindi ritenersi,  che l’elencazione dei gravi illeciti professionali rilevanti, contenuta nella lettera c) del comma 5 dell’art. 80, sia meramente esemplificativa, allo scopo di alleggerire l’onere della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione con “mezzi adeguati”: se, dunque, la risoluzione non sia contestata o sia stata confermata da una sentenza passata in giudicato, il grave illecito deve ritenersi in re ipsa, con automatico effetto escludente. Ciò, però, non preclude la possibilità di soppesare l’affidabilità del contraente in ragione di una risoluzione contestata, comunque suscettibile di una valutazione discrezionale in termini di qualificazione come “grave illecito professionale” (Tar Brescia, sez. II, n. 591/2018).

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