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La P.A. invecchia… attivamente! (seconda parte) 

Dott. Daniele Perugini

Link alla prima parte

Dopo aver analizzato nella prima parte alcuni dati distributivi degli organici della PA e aver fornito un’essenziale rappresentazione dei fondamenti posti a supporto delle politiche pubbliche e del senior management per favorire il c.d. active ageing, verranno ora sinteticamente richiamati studi, progetti ed esperienze (di livello anche internazionale) ed iniziative di integrazione e ricambio intergenerazionale, finalizzate a sviluppare, perseverare e manutenere il capitale umano costituito dai lavoratori “esperti” over 50. Poiché la valorizzazione delle differenze generazionali costituisce un valore aggiunto per le imprese, i punti di forza e gli elementi di caduta sperimentati nel mondo privato andranno a costituire, come si vedrà prossimamente, l’architettura di base per analoghi interventi nelle amministrazioni pubbliche.

La scelta di favorire lo sviluppo del capitale umano costituito dai lavoratori senior è da tempo la risposta adottata dalle strutture organizzative - economiche e non – per adeguare la forza lavoro “matura” ai mutamenti tecnologici ed organizzativi, trasferendo alle nuove leve il know-how e consolidando al contempo le buone prassi all’interno di ciascun processo aziendale.

Sul fronte pratico, una parte del mondo produttivo - in primis quello delle economie più evolute – ha percepito le opportunità promosse dall’age management (inteso come “gestione dell’età” e non di gestione dell’invecchiamento) e, con una serie di interventi strutturati e coerenti tra di loro, tende a valorizzare i punti di forza dei lavoratori in considerazione della loro età anagrafica, nella consapevolezza che ciò contribuisca ad aumentare il valore del capitale umano e influisca positivamente sull'andamento dell'azienda, assicurando l’integrazione e favorendo il ricambio intergenerazionale.

Anche nel nostro Paese molte aziende, diversificate per dimensioni e prospettive, hanno da diversi anni adottato approcci e tecniche in tal senso, spesso oggetto di precedenti esperienze (inizialmente solo estere), contestualizzandone ed implementandone però gli elementi caratterizzanti al contesto di riferimento.

ANCORA SULLE POLITICHE COMUNI E NAZIONALI. Come si è via accennato nella prima parte, da oltre un decennio le strategie, i programmi nazionali o gli accordi negoziali hanno lentamente ma progressivamente favorito in alcuni ambiti la creazione di un quadro normativo, regolamentale e contrattuale adatto ad assecondare carriere lavorative più lunghe, incoraggiando l’invecchiamento attivo, avendo riguardo per i gruppi più vulnerabili e seguendo un approccio di age management orientato ad un ciclo di vita sempre più lungo, anche a causa dei limiti sempre più prescrittivi per il raggiungimento del diritto ai trattamenti pensionistici obbligatori. La Commissione europea, attraverso diversi provvedimenti e sostenendo l’azione degli Stati membri, incoraggia l’utilizzazione delle diverse risorse per migliorare l’efficacia degli interventi, sottolineando al contempo l’importanza del dialogo sociale per il raggiungimento degli obiettivi e raccomandando il massimo coinvolgimento delle parti sociali nella progettazione e realizzazione di iniziative specifiche a livello europeo, nazionale, locale e di singola organizzazione produttiva. L'Unione Europea ha peraltro focalizzato l’attenzione su questi temi proclamando il 2012 “Anno Europeo per l'Invecchiamento Attivo e la solidarietà tra le generazioni", sulla spinta della necessità di sviluppare delle iniziative di sensibilizzazione globale e di elaborare dei principi comuni per le politiche in materia d'occupazione per l'invecchiamento attivo. In questo quadro di policy si è infatti spesso agito per favorire un cambiamento anche negli atteggiamenti dei cittadini nei confronti di queste problematiche, cercando di diffondere nell’opinione pubblica la sensibilità verso i mutamenti demografici e combattendo gli eventuali stereotipi e le discriminazioni a danno dei lavoratori anziani. A livello delle organizzazioni, alcuni progetti hanno puntato alla realizzazione di interventi volti al miglioramento della salute e dell’ambiente produttivo, adattando il posto di lavoro e i compiti alle capacità fisiche e mentali dei lavoratori maturi, mediante un alleggerimento del carico fisico e mentale del lavoro (flessibilità nella distribuzione e riduzione dell’orario di lavoro) e la promozione di percorsi di tutela specifica della salute dei lavoratori più vicini alla pensione. Occorre ricordare che una delle più recenti misure introdotte in tale ambito nell’ordinamento nazionale (la Legge n. 208/2015) disciplina per il settore privato il passaggio agevolato dall’orario di lavoro a tempo pieno a quello a tempo parziale: seppur avviata in fase sperimentale a giugno dello scorso anno, tale misura, resa operativa con DM del 7 aprile 2016, prevede specifici requisiti ed è stata prorogata per tutto il 2017. Come ha sottolineato di recente anche l’economista Giuliano Cazzola, “la sfida che l’Italia e gli altri Paesi sviluppati stanno affrontando non è quella di aprire le porte del pensionamento a persone ancora in grado di lavorare per anni, ma quella di creare le condizioni – in termini di organizzazione del lavoro, di politiche attive, di strumenti di welfare, di soluzioni contrattuali – affinché i c.d. anziani (che tali non sono più) siano in grado di prolungare la propria vita attiva”.

STUDI ED ESPERIENZE EUROPEE. Alcuni studi a livello comunitario, nel verificare che le dinamiche demografiche in atto continueranno a determinare una riduzione della forza lavoro - tenendo anche conto del fatto che le riforme pensionistiche destinate ad adeguare la durata della carriera lavorativa alla crescente aspettativa di vita risultano ancora in via di realizzazione pratica, sulla base dei modelli previsionali elaborati - hanno segnalato che le riforme già attuate o in via di implementazione alzeranno l’età media di ritiro dal lavoro nell’area OECD da 63 a 65 anni nel 2030. Questo invecchiamento della forza lavoro influenzerà negativamente anche la sua dinamicità, abbassando la propensione al rischio e alla flessibilità, nonché la mobilità geografica dei lavoratori. In questo contesto crescerà tra i non occupati la percentuale di lavoratori maturi a rischio di disoccupazione di lunga durata, richiamando quindi la necessità di reindirizzare le politiche attive in direzione del mantenimento e della manutenzione delle competenze in loro possesso. Al di là del contenuto delle analisi e delle ripetute dichiarazioni programmatiche formulate in particolare nell’ultimo decennio dall’UE, nel raccomandare l’attenzione su alcune imprescindibili priorità (quali l’ampliamento dei diritti sulle condizioni di lavoro, lo sviluppo di sistemi di protezione sociale universali e sostenibili, l’affermarsi di mercati del lavoro inclusivi, il ricorso a un robusto e continuo dialogo fra le parti sociali, una vasta disponibilità di servizi pubblici e di interesse generale, un rilevante impegno per la coesione sociale e l’inclusione dei gruppi maggiormente vulnerabili) gli studi comunitari hanno però dovuto fare i conti, specie negli ultimi anni, con un contesto sempre più aggravato dalla crescita della disoccupazione giovanile in tutto il Vecchio Continente, con una perdita di centralità delle tematiche connesse all’age management. Significativa nello scambio di esperienze, nell’identificazione, supporto e diffusione di buone pratiche è poi la Partnership Europea per l’innovazione sull’invecchiamento sano e attivo (EIP-AHA) che rappresenta un ecosistema aperto dove tutti gli stakeholders (sistemi sanitari e sociali, imprese, università, organizzazioni della ricerca, associazioni di cittadini) collaborano per condividere le loro buone pratiche, migliorarle e diffonderle, adattandole ai diversi contesti loco-regionali. È inoltre utile rilevare che la legislazione vigente in tema di invecchiamento attivo in alcuni dei principali Paesi europei (per esempio, Francia, Germania e Svezia) prevede già alcuni schemi di percezione di una quota dell’assegno pensionistico spettante (in quote variabili tra il 25% ed il 75% qualora il lavoratore decidesse di rimanere, anche part-time, nel mondo del lavoro) oppure altri meccanismi che, combinando lavoro e pensione, permettono ad un neo-pensionato di ritornare al lavoro, continuando comunque a ricevere mensilmente la pensione, a volte con riduzioni dell’assegno. L’Italia sta muovendosi a timidi passi ed è quindi chiamata a recuperare i propri ritardi nell’introduzione di logiche di invecchiamento attivo, riconoscendolo come asse strategico e componente fondamentale di una più ampia azione per la promozione dello sviluppo umano.

L’ATTENZIONE DEL PRIVATO. In verità, anche nel nostro Paese sono presenti alcune esperienze “dedicate”, soprattutto per quanto riguarda il mondo del privato. Il tema dell’invecchiamento della forza lavoro, oltre ad aver assunto crescente rilevanza nell’’ambito delle politiche pubbliche, manifesta infatti un’ormai imprescindibile necessità di azioni anche nelle politiche aziendali di gestione delle risorse umane in aziende anche di dimensioni limitate. In ogni azienda che intenda favorire politiche di invecchiamento attivo del proprio capitale umano è necessario partire da una attenta mappatura dei processi e dalla puntuale rilevazione delle caratteristiche dei soggetti, in modo da poter monitorare con continuità non solo le tendenze macro della forza lavoro, ma anche gli ambiti in cui ciascuna di esse opera all’interno del ciclo produttivo. Le azioni conseguenti non possono prescindere da momenti formativi e di ascolto degli over 50 e dall’adozione di procedure gestionali sensibili al processo d’invecchiamento della forza lavoro, limitando per quanto possibile il perimetro delle criticità derivanti dall’evoluzione dei modelli organizzativi, dall’utilizzazione delle innovazioni tecnologiche e dal naturale decorso della senilità professionale. In alcune aziende private è stata già riconosciuta l’importanza della conservazione dell’esperienza, quel bagaglio di competenze acquisite sul campo dal lavoratore maturo che costituisce un patrimonio prezioso per l’organizzazione lavorativa. Le misure poste in atto tendono sostanzialmente a preservare tale ricchezza, liberando progressivamente il lavoratore anziano dalle mansioni più faticose e sostituendole con attività di formazione, affiancamento e mentoring dei colleghi più giovani. Tale consapevolezza non è però ancora sufficientemente diffusa nelle logiche aziendali, laddove viene spesso enfatizzato solo l’aspetto negativo dell’età (associandola ad una perdita di abilità e diminuzione della performance fisica) ma senza dare adeguata rilevanza ad altri aspetti di valore positivo ed ignorando anche i numerosi riscontri empirici che smentiscono tale assunto. Diversi studi di age management suggeriscono infatti che i senior perdono progressivamente alcune capacità lavorative ma, in compenso, giungono a disporre di competenze non possedute in modo significativo nelle fasi precedenti della vita lavorativa. Sebbene la salute e la capacità fisica decadano con l’età, molte altre caratteristiche e funzioni (pensiero strategico, perspicacia, avvedutezza, capacità di giudizio, competenze, ecc.) risultano quindi più sviluppate nella seniority aziendale. Ciò costituisce un patrimonio umano di cui non conviene assolutamente fare a meno, quindi, non solo dal punto di vista etico e sociale, ma anche traguardando un’ottica di profitto. Resta il fatto che se, da un lato, l’esperienza acquisita nel tempo dalle seniority è il principale motivo per cui i lavoratori over55 sono trattenuti all’interno delle aziende, d’altro canto, il più alto costo del lavoro ha un effetto negativo sulla crescita di profittabilità e produttività delle imprese ed è ritenuto il principale motivo per cui le imprese tendono invece a espellerli. In tale contesto è possibile che le coorti di lavoratori sui quali si è investito poco in passato (in termini di formazione e di sviluppo professionale) manifestino poi un rendimento minore quando superano una certa soglia di età: sono invece gli interventi continuativi di aggiornamento e sostegno che possono modificare nettamente questa situazione, come dimostrano, più in generale, i recenti studi sulla validità delle iniziative lifelong learning.

ALCUNE ESPERIENZE. È dimostrato che una progettualità ed un’applicazione costante delle tecniche di gestione dell’età consentono, tra l’altro, una più ottimale gestione delle competenze e delle caratteristiche delle risorse umane a disposizione, attraverso il monitoraggio puntuale e l’eventuale programmazione di azioni di recruiting. Esperienze di questo tipo sono state attuate con successo da diverse multinazionali, in primis Volkswagen che ha iniziato da tempo a richiamare gli ex dipendenti, altamente qualificati, in pensione, per reinserirli in azienda nel ruolo speciale di formatori per i nuovi assunti. Nei lavoratori senior vengono particolarmente apprezzati skills quali la facilità di adattamento e re-inserimento, la conoscenza delle procedure, la lealtà nei confronti dell’azienda e, non ultimo, il forte apprezzamento da parte dei colleghi più giovani. L’esperienza Volkswagen ha ispirato numerose altre aziende che hanno seguito queste politiche, come ad esempio Bosch, che dal 1999 ha attivato uno specifico programma finalizzato a preservare il know-how aziendale e motivare il personale senior, coinvolgendolo anche nella riorganizzazione dei dipartimenti e nella supervisione dei reparti produttivi, soprattutto durante i lanci delle nuove produzioni. In Italia, le aziende che hanno recepito più nello specifico questo approccio sono Vodafone, Loccioni, Philips, ABB e STMICROELETRONICS, Telecom, Luxottica e Unicredit, tutte volte ad individuare strumenti adeguati per contemperare gli interessi e le esigenze dell’intera popolazione aziendale, supportando lo scambio generazionale. Come si può osservare (ancorché si tratti di iniziative poco conosciute) sono coinvolte in queste esperienze grandi imprese, spesso con una dimensione multinazionale. Questa constatazione induce a ritenere che il vero limite, nel nostro Paese e non solo, sia un altro, apparentemente ignorato nella predisposizione della normativa di settore: occorre sostenere ed incentivare verso percorsi virtuosi la piccola e media impresa, sulla scia, ad esempio, di quanto proposto nel c.d. contratto di solidarietà espansiva, in cui è prevista per i senior una riduzione stabile dell’orario di lavoro - con la conseguente riduzione della retribuzione, da “neutralizzare” nel calcolo pensionistico mediante contribuzione figurativa - a fronte della contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale.

L’INDAGINE ISFOL. Un’indagine qualitativa sull’age management nelle grandi imprese italiane, curata dall’ISFOL (Istituto per lo sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) nell’ambito del Fondo sociale europeo 2007-2013, pubblicata nel settembre 2015, sottolinea come la gestione dell’età non possa ridursi a una questione tra datori di lavoro e lavoratori, ma debba coinvolgere alcuni altri attori-chiave che svolgono un ruolo estremamente importante per la creazione delle condizioni più favorevoli alla realizzazione di interventi di successo (governo nazionale e locale, parti sociali, ecc.). L’indagine ISFOL, le cui rilevazioni risalgono al 2013, ha mostrato che circa il 10% del campione posto sotto osservazione (pari a 152 grandi aziende) ha progettato o realizzato interventi di age management per rispondere alle nuove esigenze gestionali legate ai fenomeni dell’invecchiamento delle risorse umane e dell’obsolescenza delle competenze dei lavoratori maturi. Le esperienze aziendali più significative sono state realizzate da imprese con sede nel Nord Italia e operanti prevalentemente nel settore dei servizi (dove il prolungamento della vita lavorativa dei dipendenti genera esigenze di ri-motivazione e aggiornamento delle competenze), risultando, di contro, meno rappresentato il settore manifatturiero, il più colpito dalla crisi economica e nel quale la necessità di intervenire nell’ambito della gestione dell’età è collegata allo svolgimento di lavori faticosi, usuranti e maggiormente esposti al rischio infortunistico. Come è emerso dall’indagine, l’invecchiamento della forza-lavoro anche per le aziende complesse e di grandi dimensioni costituisce un tema nuovo, ancorché già da tempo oggetto di studio per il mondo accademico e della ricerca socio-economica. Proprio perché l’’attenzione al fenomeno e l’avvio di interventi specifici è recente, risulta difficile la valutazione dei risultati in termini di efficacia ed efficienza (rispetto alla produttività) ed in termini di impatto (rispetto alla qualità dell’organizzazione e del clima aziendale). Fatta eccezione per alcune esperienze aziendali più complesse e continuative, è peraltro ancora prematuro un riconoscimento della validità delle iniziative in termini di sostenibilità, replicabilità e ripetibilità, parametri riconosciuti e utilizzati in ambito comunitario per l’identificazione delle buone pratiche. Alle suddette eccezioni virtuose osservate da ISFOL appartengono imprese impegnate da anni nello sviluppo di un sistema di welfare aziendale in cui il tema dell’età è stato affrontato come naturale evoluzione di un percorso e come specifica declinazione di consolidate politiche e strategie di valorizzazione. Si tratta di imprese che operano prevalentemente nel settore bancario e assicurativo (UBI Banca, Intesa Sanpaolo e Reale Mutua Assicurazioni), nel settore informatico e ITC (IBM Italia, Informatica Trentina SpA), farmaceutico (Novartis Farma SpA), energetico (Hera SpA) e delle telecomunicazioni (Telecom Italia SpA). In ciascuna di queste grandi aziende è possibile individuare - sotto specifiche declinazioni e con legami differenziati rispetto al territorio di appartenenza - gran parte di quegli elementi qualificanti le buone prassi evidenziati nella prima parte di questo elaborato. La ricerca ha inoltre consentito di evidenziare anche alcuni possibili punti di caduta, sostanzialmente dovuti a uno scarso dettaglio delle fasi di pianificazione e di individuazione degli obiettivi delle iniziative (spesso sporadiche e non condivise con il management aziendale), ad una certa difficoltà nell’identificazione dei destinatari e alla diffidenza degli stessi verso progetti in cui la seniority viene descritta in termini di esclusione anziché di valorizzazione. Elementi di caduta, questi, particolarmente incidenti nelle realtà aziendali meno solide ed organizzate, in cui hanno pesato anche l’assenza o la scarsa strutturazione di un monitoraggio e l’insostenibilità economica delle iniziative, in particolar modo ove queste sono soggette a finanziamenti esterni all’ambito aziendale o sono legate ai tempi di erogazione di fondi pubblici.

In buona sostanza, spesso la mancanza di buone prassi non è il prodotto di una scelta intenzionale ma è frutto della mancanza di strategie e di specifici interventi, considerando che questi ultimi non dovrebbero essere disgiunti dalla politica generale delle risorse umane, ma essere piuttosto in grado di valorizzare in modo differenziato i lavoratori maturi.

Come si vedrà prossimamente nella terza parte di questo contributo, la stessa Pubblica Amministrazione, poi, ha fatto proprie alcune esperienze del mondo del privato, privilegiando comunque le logiche di servizio e di continuità dell’azione amministrativa, rendendosi peraltro in molti casi parte attiva in nuovi studi e diventando bacino di incubazione per nuove esperienze, non altrimenti esercitabili a livello sperimentale in ambiti pressoché votati al profitto.

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