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È tutta colpa della burocrazia… o forse no?

a cura di Daniele Perugini

La nostra Pubblica Amministrazione spesso è lenta, non sempre efficace, a volte onerosa sia in termini di costi concreti che impliciti, minando così lo sviluppo del Sistema-Paese. Occorre ripartire da una burocrazia semplificata, in un contesto rinnovato e supportato dalla tecnologia digitale, in un circolo virtuoso verso la trasparenza dell’azione amministrativa: mettendo insieme alcuni dati oggettivi, idee e proposte provenienti dalla politica, dall’economia e dallo stesso apparato burocratico si può disegnare il percorso da affrontare verso una pubblica amministrazione che fornisca valore pubblico, realmente al servizio del cittadino e delle imprese.

I ritardi della burocrazia costano al Paese oltre trenta miliardi all’anno. Occorre attendere mediamente 1.210 giorni per arrivare al terzo grado di giudizio in una causa civile. Ogni anno un’impresa deve affrontare, mediamente, oltre 50 adempimenti di natura fiscale. La nostra PA offre una disponibilità di servizi on line superiore alla media europea ma siamo i terzultimi nel loro utilizzo. 

Tutta colpa della burocrazia, si suol dire…

E ogni volta che si può si scatena una gogna mediatica contro la Pubblica Amministrazione. Ma anche questo non è servito, almeno finora, se non per dare forza a chi, anziché provvedere ad una reale riforma dell’apparato pubblico e preoccuparsi dei rinnovi contrattuali, ha preferito dare precedenza al codice dei licenziamenti, al controllo delle assenze attraverso visite fiscali, a pagelle e a performance costruite sulla carta. Ma così non può funzionare, non più.

Quello di burocrazia - cioè l'organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità, impersonalità - è un concetto definito in maniera sistematica da Max Weber, che individuò nella struttura burocratica l’espressione e l’effetto dei processi di razionalizzazione e specializzazione delle comunità moderne, nelle quali si sviluppa una relazione di subordinazione fra i cittadini e i pubblici funzionari. In tale contesto, in forza dell’organizzazione burocratica e per la razionalità tecnica con la quale viene svolto l’operato, viene sancita la legittimità dell’esercizio del potere: il "potere degli uffici" si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli definiti e tendenzialmente immodificabili dall'individuo che ricopre temporaneamente una funzione.

Ipotizzato inizialmente come un paradigma funzionale, anche se perfettibile, adatto alle moderne Società, nel tempo ha tuttavia subito progressive trasformazioni che ne hanno evidenziato i punti di caduta e le inefficienze: queste degenerazioni si sono sempre più radicate fino a stravolgere il modello stesso e a trasformare il profilo dell’apparato burocratico pubblico in un coacervo dai confini sempre meno distinti.

Lessicalmente la burocrazia è l'insieme degli uffici e dei funzionari della pubblica amministrazione, ma, nell’accezione diffusa, è ormai anche l'organizzazione e le pratiche a cui uno Stato costringe i cittadini per fruire dei propri diritti.

L’assetto patologico attualmente assunto da alcuni apparati burocraztici infatti caratterizzato da significative discrepanze rispetto al disegno politico-sociologico originario e tende ad irrigidire il sistema, rallentando il funzionamento dell’intera Pubblica Amministrazione.

Questo vortice sempre più impetuoso miete vittime non solo tra cittadini e imprese, ma anche all’interno stesso della macchina burocratica, colpendo anche i singoli funzionari pubblici che, più o meno inconsapevolmente, sono anche attori e (in parte) corresponsabili di queste alterazioni.

Secondo uno studio presentato nell’ultimo Forum della PA di maggio 2017, la burocrazia viene percepita dagli stessi dipendenti pubblici come un eccesso di regole che zavorrano l’intero settore, in un contesto lavorativo già caratterizzato da un basso livello di motivazione degli addetti e da una complessità e lentezza delle procedure organizzative che li induce a perdere il senso strategico del loro lavoro.

Vengono in tal caso a crearsi i presupposti per l’emersione, all’interno del pubblico impiego, di un archetipo decadente ed inefficiente di civil servant, proteso verso una «burocrazia difensiva» (da alcuni definita il principale nemico dell’innovazione nella PA) ove la regola tacita è “non fare per evitare rischi”.

Un burocrate difensivo pretende documentazione sia in formato digitale che cartaceo (“perché non si sa mai….”), allunga i tempi per l’entrata in vigore di innovazioni (“per non essere il primo a sbagliare..”), non agisce se non dopo aver acquisito un surplus di pareri e solo previe direttive esplicite, preferendo chiedere al cittadino anche quegli atti e documenti che potrebbe reperire in banche dati in uso alle pubbliche amministrazioni o addirittura possedere in altri Uffici del suo stesso Ente.

Probabilmente questo è più facilmente riscontrabile in una platea di pubblici dipendenti più anziana, logorata dalle inefficienze ed inettitudini del passato e scarsamente coinvolta nei processi di cambiamento che stanno attraversando, seppur con lentezza e frammentarietà, la PA da ormai quasi tre decenni.

Ma è proprio dando supporto e maggior vigore al processo di cambiamento della PA che può verosimilmente concretizzarsi lo spirito nobile dell’amministrazione della «res publica».

La cura per i mali della burocrazia sta nell’essenza stessa del cambiamento in atto, che parte dalla semplificazione, perché è la stessa PA a voler essere più semplice, nelle regole e nei processi che genera.

Per farlo, è ormai sicuramente improcrastinabile una digitalizzazione estesa, che vada oltre l’utilizzo attuale delle tecnologie e acceleri l’avvento di un approccio realmente «digital first», nel quale già nella fase di individuazione delle organizzazioni e dei processi si costruisca un sistema nativamente digitale.

Il processo di trasformazione digitale della PA non può prescindere, infatti, da una forte sinergia tra componente tecnologica e componente organizzativa, in quanto la digitalizzazione costituisce un complesso ed articolato percorso di cambiamento, in cui l’ammodernamento delle tecnologie informatiche deve essere accompagnato (se non, addirittura, preceduto) da una completa rivisitazione dei modelli organizzativi e dei processi interni in chiave digitale.

Purtroppo la realtà di molti uffici, a prescindere da ubicazione ed aspetti dimensionali, patisce invece la resistenza al cambiamento anche da parte di quanti dovrebbero invece esserne gli attori, se non gli artefici.

In questo ambito va purtroppo rilevato che, sebbene la formazione continua possa essere una delle chiavi di volta con cui vincere la resistenza al cambiamento nelle risorse umane operanti e favorire la crescita anche delle future generazioni, nel nostro Paese la strada da percorrere è ancora tantissima, sia in campo educativo generale, che in quello più specificamente legato al personale della Pubblica Amministrazione, nei confronti del quale già con il decreto legge n. 78/2010 - nonostante se ne sia in più sedi ribadita l’assoluta rilevanza - sono stati schizofrenicamente ridimensionate le risorse da destinare alla formazione.

Non di rado - complice la scarsa disponibilità di risorse per gli investimenti – si assiste poi ad un utilizzo infinitesimo delle potenzialità tecnologiche già disponibili: quasi ovunque, nonostante l’opera di alfabetizzazione informatica attuata negli ultimi decenni, si fatica ancora a far “nascere” e sviluppare esclusivamente in formato digitale un provvedimento amministrativo e, più in generale, a dispetto delle disposizioni dell’amministrazione digitale sancite dal Codice, si rileva da parte delle stesse Pubbliche Amministrazioni uno scarso sfruttamento delle interfaccia web e dell’interoperabilità.

Peraltro, in questo progetto che riguarda la PA ma che ha effetti sistemici, non può prescindersi dal capitale umano, sia di quello attualmente disponibile che di quello da acquisire, laddove la situazione attuale sconta gli esiti del mancato turn-over e la limitatezza degli investimenti in termini di formazione e trasferimento del know-how tra generazioni.

È quindi necessario procedere quanto prima a nuove assunzioni in grado di ricomporre e ringiovanire la platea dei dipendenti pubblici, con l’accortezza di acquisire risorse dotate di nuove e maggiori competenze rispetto a quanto attualmente è presente nelle varie articolazioni pubbliche.

La cura per i mali di questa burocrazia sofferente sono quindi noti e sono state nel tempo individuate anche delle “best practices” da replicare; si stanno, peraltro, ulteriormente ampliando le infrastrutture tecnologiche e alcuni strumenti correttivi sono già operativi.

Ma la “medicina” viene somministrata a piccole dosi e incostantemente: è questo un paradosso costoso per il nostro Paese che, secondo alcuni, non consentirà di realizzare prima di due/tre lustri una PA realmente efficiente, libera dalla carta e alla quale accedere attraverso un unico punto di accesso telematico.

Va sottolineato che il passaggio ad una PA digitale necessiterà comunque di un percorso di accompagnamento per quella parte rilevante di cittadini che non è ancora in grado di accedere in autonomia a servizi esclusivamente digitali: la cittadinanza digitale, la posta elettronica, il web, la fatturazione elettronica, SPID sono tutti tasselli essenziali di questo percorso, ma al momento, in previsione dello spin off, è ancora necessario conservare una PA a due velocità, che riesca cioè a dare risposte univoche su più canali di accesso, magari ampliando progressivamente l’offerta di servizi telematici e promuovendone, seppur con adeguati supporti, la fruizione in digitale.

Di sicuro il nostro Paese è in ritardo anche rispetto ad altre tematiche dei cui effetti, astrattamente, avremmo già potuto beneficiare da tempo: le nostre amministrazioni, ad esempio, posseggono una miriade di dati, di ogni natura e profondità ma è limitato l’ambito entro cui questa mole di informazioni supporta il decisore pubblico.

La «data driven strategy», che sfrutta l’utilizzo dei dati per conoscere e guidare i fenomeni, potrebbe trasformare in «buon governo» gran parte delle azioni della PA, valorizzando le informazioni già acquisite e raccogliendone altre da cittadini, corpi intermedi e società civile, al fine di prendere decisioni mirate ed efficaci per l’intera collettività.

Il percorso virtuoso qui tracciato, che è partito dalla semplificazione (e quindi anche da un concreto snellimento della regolazione e da una redistribuzione delle responsabilità, prevedendo uno sviluppo del personale sempre più basato sulla meritocrazia, antidoto naturale alla corruzione), sta lentamente passando per la digitalizzazione e porterà a realizzare, giocoforza, una maggiore trasparenza sull’agere amministrativo, concretizzando quel bisogno di accountability neanche troppo silente che spinge il cittadino a richiedere maggiori controlli ed eventuali sanzioni non solo nei casi di reato manifesto, ma anche di fronte ad inefficienze e a valutazioni negative della performance, individuale e di struttura.

Se, da un lato, il cambiamento del Paese rende ormai ineluttabile una trasformazione accelerata della Pubblica Amministrazione, dall’altro (e viceversa), la metamorfosi di questa PA può e deve aiutare l’evoluzione del Paese, ponendo fine ad una visione autoreferenziale e recuperando, piuttosto, la missione istituzionale di motore di crescita, soggetto regolatore ma anche attivo ed abilitante che genera sviluppo e valore pubblico, al servizio di cittadini ed imprese.

 

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