LA LEGGE DELEGA. La legge n. 124/2015 approvato nell’agosto dello scorso anno, ha delegato il Governo ad adottare, entro specifici limiti temporali, una serie di provvedimenti volti a riorganizzare l'amministrazione statale e la dirigenza pubblica, a proseguire e migliorare l'opera di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, a riordinare gli strumenti di semplificazione dei procedimenti amministrativi e ad elaborare testi unici delle disposizioni in materie oggetto di stratificazioni normative. Alcuni dei decreti attuativi hanno già concluso l'iter per l'approvazione definitiva e sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, ma, al momento in cui è intervenuta la sentenza di cui a breve si analizzeranno alcuni aspetti, altri provvedimenti relativi ad alcune delle deleghe erano ancora in corso di definizione, quali quelli riguardanti il Testo Unico sul pubblico impiego, la riforma delle Prefetture, la riorganizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e delle Amministrazioni centrali, il riordino del Registro automobilistico, la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, e criteri per la ricognizione di tutte le funzioni e competenze pubbliche (attraverso l’adozione di un DPCM).
IL RICORSO ALLA CONSULTA. La Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare la legittimità costituzionale di alcune norme della legge di riforma delle amministrazioni pubbliche, su ricorso della Regione Veneto (notificato il 12 ottobre 2015, depositato il successivo 19 ottobre), in particolare quelle riguardanti la cittadinanza digitale (articolo 1), la dirigenza pubblica (articolo 11), il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (articolo 17), le partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche (articolo 18), i servizi pubblici locali di interesse economico generale (articolo 19) che afferiscono a varie materie, cui corrispondono interessi e competenze sia statali, sia regionali (e, in alcuni casi, degli enti locali). Con decisione del 9 novembre 2016, depositata lo scorso 25 novembre, la Corte Costituzionale, presieduta da Paolo Grossi, ha pronunciato la sentenza n. 251 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Regione Veneto.
SULLA RIFORMA DELLA P.A. La sentenza, come anticipato, ha scatenato tutti gli schieramenti politici, peraltro impegnati nel rush finale della campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Da un lato, c’è chi ha subito gridato alla “bocciatura” della Riforma Madia e sbandierando la sentenza a supporto di valutazioni sull’incapacità di legiferare dell’attuale Governo. Sull’altro fronte, c’è stato chi - preso da entusiasmo referendario - ha invece sbrigativamente “tradotto” l’esito della Consulta in maniera semplicistica, trasformando in argomento di propaganda politica una questione giuridica non particolarmente complessa ma, come tutte le questioni giuridiche, ricca di sfaccettature. Certo è che la sentenza è stata depositata a ridosso della scadenza del termine di delega della legge n. 124/2015, quando due decreti legislativi erano stati appena deliberati definitivamente dal Governo. In questa sede, tuttavia, appare più opportuno mirare ad un difficile equilibrio e giova quindi menzionare quanto indicato nella sinossi diffusa dalla stessa Consulta in riferimento alla sentenza n. 251: «in questa sentenza la Corte afferma – in senso evolutivo rispetto alla giurisprudenza precedente – che l’intesa nella Conferenza è un necessario passaggio procedurale anche quando la normativa statale deve essere attuata con decreti legislativi delegati, che il Governo adotta sulla base di quanto stabilito dall’art. 76 Cost. Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi e condizionati a tutte le indicazioni contenute nella Costituzione e nella legge delega, non possono sottrarsi alla procedura concertativa, proprio per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze». In pratica, secondo i giudici costituzionali, la legge n. 124/2015 viola la Costituzione laddove prevede di riformare l'assetto pubblico solo "previo parere" e non "previa intesa" con le Regioni in materie sulle quali queste ultime non possono essere solo consultate. Quando "non è possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, perché vi è, invece, una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze". Sintetizzando, il concetto chiave è quello della «leale collaborazione», che va declinata come «intesa» tra Stato e Regioni (e non semplicemente come «parere» richiesto alle seconde) nelle materie in cui vi è una competenza concorrente, statale e regionale, realizzando un confronto autentico con le autonomie regionali, il cui luogo idoneo per l’intesa è, dunque, la Conferenza Stato-Regioni.
I DECRETI ATTUATIVI. E ora, è tutto da rifare? Cosa potrà succedere ai decreti attuativi già emanati, ora che la Consulta ha bocciato, dichiarandone la parziale illegittimità, quattro articoli della legge delega dalla quale hanno preso origine? Stante la sentenza, senz'altro quelle parti della legge delega devono cambiare in linea con quanto rilevato dai giudici costituzionali e, conseguentemente, anche tre dei quattro dei decreti delegati (dirigenza, partecipate e servizi pubblici), di fatto, devono essere riscritti (o opportunamente sospesi dal Governo). Per il testo unico del pubblico impiego, non ancora approvato dal Consiglio dei ministri, resta ferma invece la scadenza è prevista per il prossimo febbraio. Anche in vista dei necessari interventi sulla legge delega, occorre precisare che, nel frattempo, per quanto riguarda i decreti (tra cui il decreto legislativo n. 116/2016, quello sui “furbetti del cartellino”) deve essere un giudice a dichiararne l’illegittimità. Va ribadito, in proposito, che la Corte ha circoscritto il giudizio alle misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative.
UNA PRECISAZIONE. Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono peraltro le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa. La sentenza colpisce la legge delega, ma non i decreti delegati, la cui illegittimità costituzionale è solo eventuale: dipende dalle lesioni sostanziali (oltre che dalle eventuali misure correttive adottate dal Governo). L’illegittimità dei decreti in questione, secondo la stessa Corte, è quindi solo eventuale e può essere sanata. Secondo una parte della dottrina, che invoca l’invalidità derivata, i decreti sono invece di fatto incostituzionali e, per questo, impugnabili. In attesa delle necessarie correzioni alla legge delega secondo le richieste della Consulta, il Governo potrebbe quindi sospendere l’efficacia o decidere per l’annullamento dei decreti attuativi in vigore. Tuttavia, nel frattempo, quelle norme vanno rispettate, come sottolineato anche da alcuni esperti costituzionalisti: se il dirigente scopre il furbetto deve denunciarlo, per non rischiare a sua volta il licenziamento, anche se la norma che lo prevede è stata oggetto di giudizio di parziale illegittimità. Le eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno poi tener conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, nell’esercizio della sua discrezionalità, riterrà di apprestare in ossequio a principio di leale collaborazione. Certo è che la legge delega, a riprova della sempre più frequente scadente qualità nella produzione delle norme, poteva esser scritta meglio dal legislatore (prevedendo l’intesa e non il parere Stato-Regioni) e forse, prima della sentenza, qualcuno avrebbe anche potuto rimetterci mano: a sorprendere, quindi, più che l’esito della sentenza (comunque dirompente in certi passaggi), è l’assenza di un’adeguata “contromisura”. È però evidente che ora la partita si debba giocare in Parlamento, su una nuova legge che sani l’errore sanzionato: solo successivamente si potranno riscrivere i decreti attuativi bocciati, stavolta preceduti dall’intesa con le Regioni.
IL RICORSO e il CAD. Torniamo ora agli altri aspetti del ricorso sui quali questo contributo desidera porre l’attenzione. La Regione Veneto nel medesimo ricorso ha richiesto il parere della Consulta anche nei confronti delle norme recanti la delega a modificare e integrare il Codice dell’Amministrazione Digitale [in particolare dell’articolo 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2 della legge n. 124/2015], relativi alla c.d. “cittadinanza digitale”, basando le proprie asserzioni con riferimento agli articoli 3, 81, 97, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 della Carta. Si tratta della parte della legge di riforma nella quale si fissano alcuni criteri e principi direttivi. ai quali il Governo dovrebbe attenersi nell’adozione di uno o più decreti legislativi volti a modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione, il Codice dell’Amministrazione Digitale e nella parte in cui si stabilisce che tali decreti legislativi siano deliberati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata da rendere nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere». Secondo la regione ricorrente, tali disposizioni sarebbero lesive del principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 della Costituzione e, altresì, violerebbero l’articolo 117, commi 2, 3 e 4, della Costituzione in quanto, stabilendo una serie di prescrizioni innovative destinate a interessare tutti i procedimenti amministrativi con cui l’amministrazione regionale e locale si rapporta con cittadini e imprese, trascenderebbero la mera funzione del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale», assegnata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ed invaderebbero vari ambiti di competenza regionale quali la sanità, il turismo, l’attività d’impresa e l’organizzazione amministrativa regionale. A parere della ricorrente, la previsione del mero parere della Conferenza unificata sarebbe, infatti, inidonea ad assicurare un’adeguata ponderazione degli interessi e delle competenze delle autonomie coinvolte dal decreto e lesiva del principio di bilateralità, poiché il mancato raggiungimento dell’accordo (e la brevità del termine a disposizione) legittimerebbe l’assunzione unilaterale di atti normativi da parte del Governo, in contrasto con la giurisprudenza costituzionale. Peraltro la ricorrente nel ricorso ha formulato particolari censure all’articolo in questione laddove viene stabilito che dall’attuazione della legge in oggetto e dai decreti legislativi da essa previsti (volti a modificare e integrare il codice dell’amministrazione digitale) non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale: la Regione ha infatti ravvisato l’imposizione di un nuovo e improprio onere di finanziamento della riforma in capo alle Regioni, in quanto l’assunzione di nuovi modelli tecnologici imposta dalla normativa statale comporterebbe inevitabilmente costi a carico della Regione, rispetto ai quali lo Stato ometterebbe di destinare le risorse aggiuntive necessarie a coprire gli oneri conseguenti all’espletamento delle azioni necessarie.
CONSULTA e CAD. La Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 251, in presenza degli analoghi presupposti del giudizio di incostituzionalità per le parti riferite all’articolo 11 della legge delega ed in virtù di siffatto ragionamento ermeneutico, ha respinto i gravami di legittimità costituzionale proposti dalla Regione Veneto nei confronti delle norme recanti la delega a modificare e integrare il Codice dell’Amministrazione Digitale. Nel giudizio è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, e 23, comma 1 e non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2. Secondo la Corte, infatti, «tali norme costituiscono, infatti, espressione, in maniera prevalente, della competenza statale nella materia del “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale” (art. 117, secondo comma, lett. r., Cost.), proprio perché sono strumentali nell’assicurare una “comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione” (sent. n. 17 del 2004), in vista della piena realizzazione dell’Agenda digitale italiana, nel quadro delle indicazioni provenienti dall’Unione europea. Esse assolvono, inoltre, all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale nell’accesso ai dati personali, come pure ai servizi, esigenza riconducibile alla competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lett. m, Cost.) ».