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IL PIAO: UNA NUOVA REGOLA: ERA NECESSARIA? IL CAMBIAMENTO È AFFIDATO SOLO ALLA PRODUZIONE NORMATIVA?

di Pietro Curzio

Nel mese di dicembre 2021 è stato presentato il PIAO introdotto dal D.L.n. 80/2021, convertito nella legge n. 113 dello stesso anno, il cui articolo 6 introduce il nuovo strumento di programmazione; del PIAO sono state descritte nell’articolo le caratteristiche ed i contenuti, in attesa di uno o più D.P.R. che dovranno raccordare il nuovo atto con i precedenti piani che in esso confluiranno, ed in attesa del decreto del Ministro per la FP che adotterà un piano tipo.

Già l’articolo di presentazione, pur sottolineando gli aspetti positivi, che potrebbero derivare dal nuovo piano, come lo snellimento ed il rafforzamento degli strumenti di programmazione, rilevava i tanti rischi di sovrapposizione con altri analoghi documenti, come, per gli EE.LL., il DUP.

Approfondiamo, dunque, il significato del PIAO, fermandoci a sottolinearne i limiti già evidenti, oltre che le potenzialità in essa contenute.

Cominciamo dal cogliere gli aspetti positivi.

Sono sostanzialmente due:

A)la sinergia tra i vari atti programmatori: piano della performance, POLA, struttura organizzativa, piano formativo, misure per l’anti corruzione e trasparenza, l’elenco delle procedure da semplificare, azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilità alle PA  e a rispettare la parità di genere; vale a dire “tenere insieme” gli atti verso un unico  obiettivo: la generazione di lavoro Pubblico, vale a dire il miglioramento del benessere di cittadini, imprese e stakeholders vari.

  1. B) l’introduzione inoltre del “valore pubblico” (art. 3 bozza D.M.FP); con esso si esalta la funzione servente della pubblica amministrazione, in modo che essa impari a rapportarsi col cittadino, non più in quanto "cliente", ma in quanto "persona". Dal miglioramento dei servizi al cittadino cliente, presente nel D.Lgs. n. 150 del 2009, si passa, in sostanza, alla cittadinanza attiva, promossa e valorizzata dalla PA, rispetto a cui quest’ultima si pone in termini di supporto, favorendo il benessere della collettività.

Intendiamoci, i punti suindicati non cadono dal cielo, ma sono il frutto di un percorso già avviato da tempo dal legislatore. E’ giusto, infatti, ricordare che, prima del decreto n. 30, l’integrazione tra i vari atti non era certo vietata; anzi, già nel 2017 il paragrafo n. 2 delle linee guida del Ministero della FP sulla redazione del piano performance si intitolava: “L’integrazione tra i cicli della performance, del bilancio e della programmazione strategica”. Ed ancora non dobbiamo dimenticare che l’art. 8 del D.Lgs n. 150  ancorava la misurazione della performance organizzativa  a vari parametri, il primo dei quali era costituito dall’attuazione di politiche e al conseguimento di obiettivi collegati ai bisogni e alle aspettative della collettività e suggeriva la rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi.  In ogni caso, pur non arrivando a definire il PIAO “un’occasione storica” come ha affermato il Prorettore alla programmazione, al bilancio e alla creazione di Valore Pubblico dell’Università di Ferrara, Enrico Deidda, possiamo sostenere che il D.L.n. 30 consolida significativi principi posti a base dell’agire della PA. 

Veniamo ora ai limiti, che non sono solo di questo ennesimo intervento legislativo, ma sono caratteristici dell’approccio con cui si affronta il tema della riforma della PA: un approccio fondato sulla norma, sull’intervento dall’alto, sulla descrizione di nuovi adempimenti, nuove procedure, nuove scadenze.

Per illustrare la possibilità di utilizzare metodi diversi, non occorre andare molto lontano; possiamo restare in Italia, in cui il nostro governo, questo governo Draghi, il 10 marzo 2021, a Palazzo Chigi sottoscrisse il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, documento firmato dallo stesso Presidente del Consiglio, insieme al Ministro per la Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, e, di contro, dai Segretari generali, Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl) e Pierpaolo Bombardieri (Uil). In questo patto, tra l’altro si legge: “Il nostro Paese riparte dalle donne e dagli uomini della Pubblica Amministrazione, nello Stato, nelle Regioni e negli Enti locali, nel sistema della Conoscenza e nella Sanità e nelle agenzie pubbliche, dalla capacità di affrontare con le migliori competenze professionali e qualità umane tutte le sfide, sempre al servizio di comunità, cittadini e imprese,….. Il ruolo della Pubblica Amministrazione, in qualità di motore di sviluppo, è in questo senso centrale: soltanto la semplificazione dei processi e un massiccio investimento in capitale umano possono aiutare ad attenuare le disparità storiche,… ». Ed ancora più chiaro è il Patto quando afferma: “ Perciò non servono tanto nuove leggi, quanto la capacità di adattarsi a scenari estremamente mutevoli con flessibilità. Una flessibilità che riguarda tre variabili: lavoro (gestione delle risorse umane), organizzazione e tecnologia. Tutto ciò è possibile valorizzando le lavoratrici e i lavoratori della Pubblica Amministrazione.”

Un lettore attento si sarebbe aspettato in attuazione di questo patto non certo una nuova norma, con un nuovo adempimento; ci si sarebbe aspettato la determinazione di traguardi concreti per tutte le PA sulla strada del miglioramento dei servizi, lasciando autonomia agli enti nelle modalità per perseguirli; ci si sarebbe aspettatiti il sostegno anche economico a forme di partecipazione dei lavoratori ai processi lavorativi e al loro miglioramento; ci si sarebbe aspettati l’organizzazione di conferenze a livello territoriale per mettere a confronto esperienze; ci si sarebbe aspettati un intervento “politico” nei confronti degli enti pubblici, anche attraverso le loro associazioni (ANCI, UPI, Conferenza Regioni) perché il tema della riforma venga finalmente fatto proprio dai Sindaci o dai presidenti, ci si sarebbe aspettato uno sviluppo delle relazioni sindacali che non si fermino alla gestione delle conseguenze salariali di politiche innovative. In una parola ci si sarebbe aspettati “la politica”, anzi “le politiche” fatte di idee, di progetti, di valutazioni, di investimenti finanziari, ma anche culturali, aventi come destinataria la capacità delle organizzazioni di trovare in loro stesse le risorse per procedere sulla strada delle innovazioni.

E invece continuano a proliferare decreti con una normativa molto puntuale, descrittiva, con la previsione di scadenze e sanzioni; una normativa, che, tra l’altro, continua a ripetere prescrizioni già contenute in precedenti articolati. Prendete, ad esempio, il monitoraggio o la partecipazione dei cittadini e degli altri utenti finali nella valutazione dei servizi; essi, già previsti rispettivamente dall’art. 6 e 19 bis del D.Lgs n. 150, sono riproposti nel D.L.n. 80. Ed allora vien da chiedersi: sulla base di quale ragionamento il legislatore è tornato su quanto già previsto? quale era stato l’impatto dell’art. 19 bis ? in quante e con quali modalità i cittadini avevano partecipato al processo di misurazione della performance organizzativa?  Ed ancora, stante questa continuo bisogno di scrivere norme, come mai è scomparso il monitoraggio svolto dagli organi di indirizzo politico,  con il supporto dei dirigenti, come era previsto nella prima stesura del D.L.gs n. 150)? E’ rimasto vivo il solo monitoraggio affidato agli OIV! Eppure il Ministero ben conosce la differenza tra i due tipi di monitoraggio: nelle linee guida del dicembre 2017 sulla valutazione della performance, al box n. 2, si legge “Il monitoraggio è una funzione che deve essere svolta sia dall’amministrazione, nell’esercizio del controllo direzionale proprio delle responsabilità della dirigenza, sia dall’OIV, nell’esercizio delle funzioni ad esso affidate”.

Va spesa, infine, una parola sulla formazione: se è vero che ciò su cui puntare per le riforme è il capitale umano esistente negli enti pubblici,  è evidente che la formazione occupa un ruolo strategico, di cui, del resto, sono ben consapevoli tutti i soggetti che propongono formazione, agenzie pubbliche, come la Scuola superiore PA, o altre agenzie formative; le proposte, che da loro scaturiscono,  sono molto variegate passando dalla descrizione delle norme allo sviluppo delle competenze richieste, per esempio, dallo sviluppo sostenibile. Occorre, a mio parere, accentuare una formazione per così dire ermeneutica, che punti a far crescere le capacità, gli interessi, le curiosità già esistenti nelle organizzazioni per far crescere autonomia nella progettazione, nella valutazione dei risultati, nella cura delle relazioni tra enti e cittadini. Per questo più che illustrare le singole disposizioni, occorre fornire strumenti di lavoro, metodi di analisi, costituire gruppi di dipendenti appartenenti alla stessa area o settore e condividere con loro nelle giornate formative le ordinarie e quotidiane attività, in modo da fa siì che loro stessi individuino i punti di forza e di debolezza. Un lavoro capillare, certosino, paziente che si muova in profondità e che tenda a rendere protagonisti gli stessi dipendenti. Il contrario di considerarli un peso, da rimuovere attraverso una puntuale descrizione dei comportamenti da tenere o delle procedure da seguire.  

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