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La parità di genere e lo strabismo della Pubblica Amministrazione

di Villiam Zanoni

Il problema della parità (o della disparità) di genere occupa da diversi anni le vicende lavoristiche e pensionistiche dei lavoratori italiani, vicende che paradossalmente hanno trovato nuova linfa in seguito alla entrata in vigore della riforma Fornero. Nel settore privato, all’interno del quale none esiste alcun limite di età ordinamentale che imponga al datore di lavoro determinati comportamenti, il problema è tutto di natura lavoristica e trova la sua regolamentazione da un lato nelle norme sulle pari opportunità, e dall’altro nelle norme sul licenziamento per giusta causa, a nulla rilevando il fatto che fino al 31 dicembre 2017 le donne possano accedere alla pensione di vecchiaia con età pensionabili inferiori a quella prevista per gli uomini o alla pensione anticipata con requisiti contributivi altrettanto inferiori.

Ben diversa è la situazione del settore pubblico nel quale nel tempo si sono susseguite normative non sempre perfettamente coordinate.

In particolare per le donne, infatti, esistevano due specifici aspetti che debbono essere chiariti.

Il primo aspetto riguarda il normale e generale collocamento a riposo d’ufficio che doveva avvenire per tutti al raggiungimento del limite di età ordinamentale generalmente previsto per tutti all’età di 65 anni, tranne che per talune figure per le quali era fissato all’età di 60 anni (vedi ad esempio il personale infermieristico delle ASL o qualche regolamento organico di enti locali),.

Tale limite divenne poi per tutti quello dei 65 anni per effetto della legge n° 903 del 9 dicembre 1977, anche se l’articolo 4 prevedeva che le lavoratrici avrebbero dovuto inoltrare una specifica istanza almeno 3 mesi prima del compimento dell’età. Poiché tale adempimento era esso stesso elemento discriminatorio, con sentenza n° 498 del 27 aprile 1988 della Corte Costituzionale fu dichiarato illegittimo; ne è derivato che la donna non poteva essere licenziata fino al compimento degli stessi limiti di età previsti per l’uomo.

Successivamente è entrato in vigore il nuovo Codice delle pari opportunità (decreto legislativo n° 198 del 11 aprile 2006), il cui articolo 30 ha stranamente ripristinato l’obbligo di comunicazione preventiva al datore di lavoro entro 3 mesi dalla data di compimento dell’età, cioè proprio quel meccanismo che era stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale.

La stessa Corte, infatti, è stata quindi nuovamente chiamata a pronunciarsi e conseguentemente ha dichiarato illegittima anche l’ulteriore normativa (sentenza n° 275 del 29 ottobre 2009), costringendo poi il legislatore ad una ulteriore riscrittura dell’articolo 30 del decreto legislativo n° 198 del 11 aprile 2006, avvenuta con l’articolo 1 del decreto legislativo n° 5 del 25 gennaio 2010.

Il limite di età regolamentare è quindi divenuto uguale per tutti senza differenza di genere, anche se necessariamente da raccordare con le norme pensionistiche.

Il secondo aspetto riguarda l’età pensionabile che per tutti i lavoratori seguiva pedissequamente l’età ordinamentale, salvo raccordarsi con le vicende della riforma Amato (D.Lgs. n° 502/1992).

Per le donne, a prescindere dal limite di età previsto per il collocamento a riposo d’ufficio, l’età poteva facoltativamente essere fissata ad un limite non inferiore a 60 anni così come disposto a suo tempo dall’articolo 2, comma 21, della legge n° 335 del 8 agosto 1995; ne derivava che l’Amministrazione non poteva adottare il provvedimento di collocamento a riposo d’ufficio, ma la lavoratrice poteva dimettersi ottenendo tranquillamente la pensione di vecchiaia.

Tale ultima vicenda ha poi successivamente interessato le cronache previdenziali di diversi anni, in particolare quando, dopo ripetuti e vani inviti da parte della Commissione Europea, si è giunti alla sentenza n° 46/07 del 13 novembre 2008 della Corte di Giustizia Europea attraverso la quale l’Italia è stata condannata per violazione dell’articolo 141 del Trattato Europeo.

In attuazione di tale sentenza l’articolo 22-ter del decreto legge n° 78 del 1 luglio 2009, convertito in legge n° 102 del 3 agosto 2009 avviò il percorso di innalzamento dell’età pensionabile delle lavoratrici del settore pubblico a partire del 2010 con l’obiettivo della parificazione agli uomini dal 2018.

L’ulteriore pressing della Commissione Europea ha poi portato alla emanazione dell’articolo 12, comma 12-sexies, del decreto legge n° 78 del 31 maggio 2010, convertito in legge n° 122 del 30 luglio 2010, mediante il quale era stato introdotto l’innalzamento del limite di età a 65 anni a partire dal 1° gennaio 2012.

Prima ancora quindi delle riforma Fornero, avevamo eliminato ogni differenza di genere nel settore pubblico, fermo restando che le lavoratrici che avessero già perfezionato i preesistenti requisiti al 31.12.2009 o al 31.12.2011 avrebbero potuto continuare ad accedere a pensione.

Sulle pensioni di anzianità (o anticipate) non avevamo nessun problema poiché i requisiti erano identici per tutti, così come uguali per tutti erano le condizioni in cui avrebbe potuto verificarsi la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 72, comma 11, del D.L. n° 112/2008.

Ora paradossalmente il problema si ripresenta a partire dal 1° gennaio 2012 per effetto dell’ultimo intervento riformatore, con due situazioni diverse fra cessazione per vecchiaia e cessazione per risoluzione unilaterale.

Partiamo dalla risoluzione unilaterale poiché è quella di più semplice soluzione.

Se il citato articolo 72, comma 11, del D.L. n° 112/2008, nella sua originaria versione, ne prevedeva la possibilità di applicazione a fronte del fatto che il lavoratore o la lavoratrice potessero far valere la “massima anzianità contributiva dei 40 anni”, il problema si è posto dal 2012 poiché da un lato non esiste più la “massima anzianità” e dall’altro la nuova pensione anticipata vede accedervi uomini e donne con requisiti diversi.

Fin che è il lavoratore o la lavoratrice che si dimettono per accedere a tale pensione non esiste alcun problema (tutt’al più è il lavoratore che potrebbe ritenersi discriminato poiché deve lavorare 1 anno in più), ma quando è l’amministrazione che licenzia il lavoratore ecco che emergono nuovamente le disparità di genere poiché a questo punto la lavoratrice potrebbe essere licenziata prima del lavoratore.

Non è secondario ricordare che su tale disparità si è già accesa l’attenzione della Commissione Europea che non ha ancora aperto una formale procedura di infrazione contro l’Italia, ma ha già chiesto che venga rimossa.

La riscrittura del comma 11 già citato per effetto dell’articolo 1, comma 5, del D.L. n° 90/2014 ha semplicemente ratificato detta situazione come ampiamente commentato dalla circolare n° 2/2015 di Funzione Pubblica.

Quella circolare ha però resa esplicita una giusta preoccupazione che si è tramuta in un suggerimento alle amministrazioni pubbliche.

Poiché la risoluzione deve essere motivata, è stato suggerito di adottare atti regolamentari contenenti i criteri applicativi, in presenza dei quali la motivazione non serve.

In tale contesto la Funzione Pubblica ha dato il seguente suggerimento: “nel definire i criteri le amministrazioni valuteranno se prevedere soluzioni di armonizzazione tra uomini e donne, riguardo al momento di adozione della risoluzione unilaterale del rapporto, al fine di scongiurare casi di discriminazione di genere in relazione al diverso requisito di anzianità contributiva richiesto.”

Tutto torna quindi in mano alle singole amministrazioni.

Peccato però che tale attenzione non sia stata manifestata in ordine alla cessazione per limiti di età.

Da un lato la riforma Fornero ha esplicitamente ribadito che restano fermi i limiti di età ordinamentali e il D.L. n° 101/2013 ha ulteriormente chiarito che non sono assolutamente derogabili nei confronti di coloro che hanno acquisito “qualsiasi” diritto a pensione.

Dall’altro lato si è riaffermato il principio in base al quale coloro che hanno acquisito al 31.12.2011 i requisiti per il diritto a pensione continuano ad accedervi in base alla preesistenti normative.

Siamo quindi di nuovo di fronte ad un aspetto positivo che consente a taluni di accedere a pensione prima rispetto ad altri, come accade per gli uomini che al 31.12.2011 avevano già compiuto i 65 anni di età e maturato i 20 anni di contribuzione, ma anche alle donne che alla stessa data avevano già compiuto i 61 anni di età e maturato i 20 anni di contribuzione.

Per contro esiste il lato negativo oggi presenta la seguente situazione.

Prendiamo un lavoratore e una lavoratrice dipendenti pubblici che compiono al 31 ottobre 2015 i 65 anni di età, entrambi con circa 35 anni di contribuzione alle spalle.

Ebbene, al lavoratore non accade nulla poiché al 31.12.2011 non aveva maturato alcun diritto a pensione, motivo per il quale continuerà a prestare attività lavorativa fino al compimento dei 66 anni e 10 mesi, per cui andrà in pensione al 31 agosto 2017 con 36 anni e 10 mesi di contribuzione.

La lavoratrice, invece, verrà collocata a riposo dal 1° novembre 2015 poiché al 31.12.2011 aveva già maturato il diritto a pensione e otterrà una prestazione con 35 anni di contribuzione.

Tutto questo, fra l’altro, avviene a fronte di un diritto a pensione che era esercitabile facoltativamente dalla lavoratrice e che nessuno poteva imporre, così come accade per le lavoratrici che avevamo i 57 anni di età e i 35 anni di contribuzione.

Tale situazione è palesemente in contrasto con le disposizioni comunitarie e del Trattato Europeo così come già scritto dalla sentenza n° 46/07 del 2008 della Corte di Giustizia.

Fra l’altro vanno segnalate già diverse sentenze e ordinanze pronunciate da diversi tribunali che hanno dichiarato illegittimi i provvedimenti di collocamento a riposo avvenuti in situazioni analoghe a quella sopra evidenziata, ripristinando il rapporto di lavoro delle lavoratrici che erano state collocate a riposo.

Di fronte a tale situazione stupisce che il Dipartimento della Funzione Pubblica rimanga in silenzio e non dia alle amministrazioni pubbliche indicazioni operative che evitino il contenzioso che in molti casi ha un esito scontato.

E’ uno strabismo per certi versi incomprensibile, anche se ovviamente uno dei motivi fondamentali che hanno generato quelle norme e quelle interpretazioni è sicuramente da individuare nel risparmio della spesa.

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