Questo è accaduto con la sentenza n° 241 del 5 ottobre/11 novembre 2016 della Corte Costituzionale che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 72, comma 2, della legge n° 388/2000 e all’articolo 19 del D.L. n° 112/2008 convertito in legge n° 133/2008.
Le disposizioni citate sono quelle che da ultime hanno regolamentato i meccanismi del cumulo fra pensione e redditi da lavoro mantenendo in particolare talune differenze in funzione sia della tipologia di pensione, sia della tipologia del reddito da lavoro.
Nel caso che ha poi generato la sentenza si sosteneva esistesse una disparità di trattamento costituzionalmente illegittima fra la pensione di anzianità, divenuta totalmente compatibile con i redditi da lavoro, e la pensione di privilegio che ha invece mantenuto una parziale in cumulabilità sia con i redditi dal lavoro dipendente, sia con i redditi da lavoro autonomo.
Ovviamente occorre innanzitutto ricostruire il percorso normativo che ci ha portato alla situazione odierna.
Senza tornare ai tempi più remoti, quando fu varata la norma di armonizzazione del sistema previdenziale con la riforma Amato (Decreto Legislativo n° 503 del 30 dicembre 1992) , all’articolo 10 fu stabilito che a partire dal 1° gennaio 1994 le quote di pensione di vecchiaia e di invalidità, a carico dell'AGO per i lavoratori dipendenti o autonomi o delle forme di previdenza esclusive e sostitutive, eccedenti l’importo del trattamento minimo, non sarebbe più state cumulabili con i redditi da lavoro dipendente o autonomo nella misura del 50%.
A tal proposito si ricorda che le pensioni di anzianità a carico dell’AGO erano già totalmente in cumulabili con i redditi da lavoro dipendente, mentre a partire dal 1° ottobre 1996, per effetto dell’articolo 1, comma 186, della legge n° 662 del 23 dicembre 1996, a tutte le pensioni di anzianità o comunque anticipate, liquidate a carico di qualsiasi forma previdenziale obbligatoria, fu esteso il totale divieto di cumulo con qualunque tipologia di reddito da lavoro.
Già l’anno dopo si fece una piccola retromarcia quando con l’articolo 59, comma 14, della legge n° 449 del 27 dicembre 1997 fu alleggerito tale divieto prevedendo che le pensioni di anzianità sarebbero state in cumulabili con i reddito da lavoro autonomo limitatamente al 50% della parte eccedente il trattamento minimo.
L’ondata buonista continuò qualche tempo dopo quando con l’articolo 72 delle legge n° 388 del 23 dicembre 2000 si fecero due altrettanto significativi passaggi:
- da un lato si stabilì che a decorrere dal 1° gennaio 2001 le pensioni di vecchiaia e tutte le altre pensioni liquidate con una anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni, a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive, sarebbero divenute interamente cumulabili con i redditi da lavoro dipendente o autonomo;
- dall’altro lato si stabilì che le pensioni di anzianità e di invalidità a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive sarebbero divenute in cumulabili con i redditi da lavoro autonomo limitatamente al 70% della parte eccedente il trattamento minimo, fermo restando che la trattenuta non avrebbe potuto superare il 30% dei redditi conseguiti.
In quel contesto rimase inalterata la regola di totale in cumulabilità delle pensioni di anzianità con i redditi da lavoro dipendente, così come la regola di parziale incumulabilità (50% della parte eccedente il minimo) delle pensioni di invalidità con i redditi da lavoro dipendente.
L’ultimo capitolo della saga viene scritto nel 2008 quando all’interno della prima manovra “estiva” di contenimento della spesa pubblica (decreto legge n° 112 del 25 giugno 2008, convertito in legge n° 133 del 6 agosto 2008), viene inserito l’articolo 19 con cui, in sfregio al titolo (Abolizione dei limiti al cumulo tra pensione e redditi di lavoro) all’interno del si prevede che per le sole pensioni di anzianità scompare ogni divieto di cumulo con i redditi la lavoro dipendente e autonomo a partire del 1° gennaio 2009.
Detta ultima disposizione fu poi commentata dall’INPDAP con la nota operativa n° 45 del 28 novembre 2008 con la quale fu reso ancora più esplicito lo scenario di riferimento:
“L’abolizione dei limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro non rileva nei confronti dei titolari delle pensioni ai superstiti e delle pensioni di invalidità. Per gli iscritti a questo Istituto nella locuzione “pensioni di invalidità” rientrano i trattamenti derivanti da dispensa per inabilità assoluta e permanente a qualsiasi proficuo lavoro o quella relativa alle mansioni (articolo 13 della legge n. 274/1991), le pensioni di infermità (articolo 42 del DPR 1092/1973) nonché i trattamenti pensionistici di privilegio, fermo restando quanto disposto dall’articolo 139 del DPR 1092/1973 applicabile nei casi di attività svolta alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, in virtù del richiamo espresso di detto articolo al “rapporto di servizio”. Per dette tipologie di trattamenti pensionistici continuano, pertanto, a trovare applicazione le disposizioni in materia di cumulo di cui all’articolo 72, comma 2, della legge n. 388/2000 (cumulabilità nella misura del 70 per cento con i redditi da lavoro autonomo, 50 per cento con quelli derivanti da lavoro dipendente ovvero intera cumulabilità per le pensioni liquidate con anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni). Ciò anche alla luce di quanto dispone l’art. 59, comma 4 della legge n. 449/1997 che estende alle forme pensionistiche sostitutive ed esclusive le disposizioni in materia di cumulo tra prestazioni pensionistiche e redditi da lavoro dipendente e autonomo previste dalla disciplina dell’assicurazione generale obbligatoria.”.
Da quel momento in poi non c’è più alcun problema per le pensioni di anzianità o di vecchiaia, rimangono dei problemi transitori per i titolari di pensione di invalidità che però finiscono al compimento dell’età pensionabile poiché, come ricordato nell’allegato 1) della predetta nota operativa n° 45/2008, “al raggiungimento dell’età pensionabile le pensioni di invalidità sono equiparate ai trattamenti pensionistici di vecchiaia ai fini dell’applicazione della disciplina sul cumulo”, mentre restano sempre dei problemi per i titolari di pensione di privilegio per i quali non è scontata la virtuale trasformazione in vecchiaia.
E’ proprio tutto questo insieme che è stato proposto alla Corte Costituzionale la quale non solo ha assolto le norme citate dal vizio di legittimità, ma nelle motivazioni ha anche esplicitato le particolarità della situazione.
Una delle prime tesi dei ricorrente che la Corte ha smontata è quelle riferita al fatto che il soggetto aveva anche contemporaneamente i requisiti per la pensione di anzianità, ma una volta riconosciuta la incapacità lavorativa per patologie riconosciute dipendenti da causa di servizio, si è vista liquidare d’ufficio (in quanto militare) la pensione di privilegio.
La Corte infatti afferma che “l’auspicata parificazione tra pensione privilegiata ordinaria e pensione di anzianità, agli effetti dell’applicazione di un cumulo integrale, non può derivare dalla circostanza, del tutto accidentale, che il titolare di pensione privilegiata ordinaria abbia tutti i requisiti per accedere anche alla pensione di anzianità.”.
Quando poi il ricorrente ha invece sostenuto in linea di principio la disparità di trattamento ai fini del cumulo con i redditi da lavoro fra pensioni di invalidità e pensioni di privilegio rispetto alla pensione di anzianità, anche questa tesi è stata rigettata per una serie di motivazioni:
“La scelta del legislatore è di apprestare, per pensioni privilegiate ordinarie e trattamenti di invalidità, una disciplina omogenea in termini di cumulo con i redditi da lavoro.
L’uniformità della disciplina, definita incongrua dal giudice rimettente, è invece in consonanza con il comune presupposto delle due prestazioni, consistente nella lesione dell’integrità fisica, e rispecchia la ratio della pensione privilegiata, che si configura come “una sorta di riparazione”, conseguente al danno alla persona riportato per infermità contratte in relazione al servizio prestato (sentenza n. 43 del 2015).
Questo regime si fonda sul presupposto che lo svolgimento di un’attività produttiva di reddito denota una diminuzione dello stato di bisogno, tutelato dall’art. 38, secondo comma, Cost. (sentenza n. 30 del 1976).
Con particolare riguardo alla pensione privilegiata ordinaria, i benefici riconosciuti dal legislatore, anche in termini di incremento della pensione corrisposta, valgono a compensare la riduzione della capacità di produrre reddito, derivante dall’infermità contratta a causa di servizio, e hanno il loro contrappeso nelle limitazioni al cumulo tra pensioni e redditi da lavoro.
Peraltro, la libertà di cumulo si attesta sul 70 per cento, misura che non rappresenta un intralcio sproporzionato al diritto di svolgere un lavoro dopo la pensione.”.
Per tutto questo insieme di motivi resta quindi il vincolo per il titolare di pensione di privilegio che continui a prestare attività lavorativa di restituire all’INPS quella parte di pensione che la norma definisce in cumulabile.