Tale normativa fu quella che chiuse per altri versi le liti che erano sorte sulle disposizioni che regolavano il cosiddetto “TFR per tutti” (articolo 12, comma 10, del decreto legge n° 78/2010, convertito in legge n° 122/2010), nel senso che, una volta dichiarate parzialmente illegittime con sentenza n° 223 del 8-11 ottobre 2012 della Corte Costituzionale, furono definitivamente espunte dal nostro ordinamento.
Abbiamo anche sempre ricordato come da quelle liti rimase in qualche modo estraneo il comparto degli Enti Pubblici non Economici, poiché nel loro ordinamento sia il TFS che il TFR sono gestiti con criteri diversi (legge 20 marzo 1975, n° 70) rispetto a ciò che invece accade nella generalità delle pubbliche amministrazioni (comparto Regioni, Autonomie locali e Sanità (ex INADEL) legge 8 marzo 1968, n° 152 – comparto Stato D.P.R. 29 dicembre 1973, n° 1032).
Lasciando a parte l’indennità di anzianità per i dipendenti degli enti pubblici non economici, gestita direttamente dagli enti datori di lavoro, per gli altri due macro comparti sopra indicati siamo sempre stati di fronte ad un trattamento di natura “previdenziale” (definito tale anche dalle stesse disposizioni richiamate) per il quale era ed è tuttora prevista una aliquota contributiva di finanziamento da commisurare all’80% della retribuzione utile, parte della quale posta a carico del lavoratore, appunto il famigerato 2,50%.
Nel frattempo prima con l’accordo quadro del 23 luglio1999, poi con il DPCM del 20 dicembre 1999, si introduce anche per i dipendenti pubblici il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) evocando l’articolo 2120 del Codice Civile.
Con l’introduzione del TFR sono poi rimaste alcune specificità riferite alla pubblica amministrazione.
Da un lato, quindi, si è affermato teoricamente il principio in base al quale il TFR è tutto a carico del datore di lavoro, accompagnato da una logica di calcolo che prende a riferimento l’intero valore della retribuzione (non più il solo 80%) annualmente percepita, transitando altresì da una prestazione di natura previdenziale ad una logica di accantonamento annuale successivamente rivalutato sulla base del 75% dell’indice costo vita rilevato dall’ISTAT, più un 1,5% fisso.
Dall’altro lato, al fine di non creare costi aggiuntivi per le pubbliche amministrazioni, è stato stabilito che la retribuzione di riferimento non è quella “non occasionale” di cui all’articolo 2120 del C.C., bensì quella fissa e ricorrente già utile ai fini della precedente prestazione, con facoltà della contrattazione collettiva di includere ulteriori voci retributive come avvenne in occasione di alcuni rinnovi successivi dei rispettivi CCNL. Su tali voci retributive, nella misura dell’80%, continua ad essere definito il contributo di finanziamento all’ex INPDAP in misura pari al 9,60% (ex ENPAS) o al 6,10% (ex INADEL).
La perla finale di quell’accordo riguardò il meccanismo di finanziamento che avrebbe dovuto sopprimere il concorso del lavoratore del 2,50%, inserito a sua volta nell’impianto delle “invarianze”: si sopprime da un lato il contributo del 2,50% a carico del lavoratore, ma lo si converte in una decurtazione di pari importo della retribuzione lorda del lavoratore, generando in tal modo invarianza della retribuzione netta, dell’imponibile fiscale e dell’imponibile contributivo.
Prima di analizzare gli altri più recenti pronunciamenti giurisprudenziali, occorre fare un netto distinguo fra tre diverse situazioni in cui si vengono a trovare i dipendenti pubblici.
Il primo blocco, fra l’altro ancora quello numericamente più consistente, riguarda tutti coloro che, in quanto assunti a tempo indeterminato entro il 31 dicembre 2000, e in quanto non ancora iscritti ai fondi di previdenza completare negoziali (Espero, Perseo-Sirio, Laborfond, Fopadiva, Prevedi, Fondo Giornalisti), sono ancora destinatari dei trattamenti di fine servizio (Indennità Premio di fine servizio ex INADEL o Indennità di Buonuscita ex ENAPS) e continuano ad avere tutto regolato dalla norme già citate con trattamenti di tipo previdenziale e ai quali si continua a trattenere la quota parte del contributo del 2,50% sull’80% della retribuzione imponibile e per i quali nulla di diverso si può sostenere.
A tale blocco si ricorda che appartiene anche tutto il personale cosiddetto “non contrattualizzato” o a regime pubblico, quale il personale dell’intero comparto sicurezza, difesa e soccorso, il personale della carriera diplomatica, i docenti universitari, il personale degli organi costituzionali).
Il secondo blocco riguarda tutti coloro che, in quanto assunti a tempo indeterminato entro il 31 dicembre 2000, hanno successivamente optato, ai sensi dell’articolo 59, comma 56, della legge n° 449 del 1997, per il Trattamento di Fine Rapporto con contemporanea iscrizione ai fondi di previdenza complementare negoziali sopra richiamati, per i quali oltre ai tre normali canali di finanziamento dei rispettivi Fondi (TFR, tutto o in parte, contributo del datore di lavoro, contributo del lavoratore) hanno anche ottenuto, a titolo di incentivazione, una quarta fonte di finanziamento a carico dell’INPS (ex INPDAP) commisurata ad una parte di quel 2,50% teoricamente soppresso, e precisamente un 1,50% sull’80% della retribuzione (di fatto un 1,2%).
Anche per questi lavoratori (che continuano a pagare di fatto il 2,50% attraverso la riduzione della retribuzione lorda di una cifra di pari importo) poco altro si può chiedere poiché rispetto alla “decurtazione” hanno in qualche modo un ritorno economico che cesserebbe di esistere se cessasse la decurtazione stessa.
Il terzo blocco riguarda tutti coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato dopo il 31 dicembre 2000 e che sono destinatari del TFR, a prescindere dal fatto che si siano o meno iscritti ai fondi di previdenza complementare negoziale.
Nei confronti di tali soggetti prima con l’accordo quadro del 23 luglio1999, poi con il DPCM del 20 dicembre 1999, si introdusse appunto il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) evocando in qualche modo l’articolo 2120 del Codice Civile.
L’articolo 2, comma 5, della legge n° 335 del 8 agosto 1995 aveva appunto previsto che “per i lavori assunti dal 1 gennaio 1996 alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n° 29, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, sono regolati in base a quanto previsto dall'articolo 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto” termine che fu poi differito al 1° gennaio 2001
Nei confronti di tali lavoratori l’articolo 1, comma 4, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 dicembre 1999, in adesione all’identico principio contenuto nel comma 3 dell’articolo 6 dell’accordo quadro del 29 luglio 1999, si stabilì che “per garantire la parità di trattamento contrattuale dei rapporti di lavoro, prevista dall’articolo 49, comma 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n° 29, e successive modificazioni e integrazioni, ai dipendenti assunti dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto, si applica la disciplina prevista dai commi 2 e 3”.
In particolare al comma 3 del DPCM citato si stabilì che “per assicurare l’invarianza della retribuzione netta e di quella utile ai fini previdenziali dei dipendenti nei confronti dei quali si applica quanto disposto dal comma 2, la retribuzione lorda viene ridotta in misura pari al contributo previdenziale obbligatorio soppresso e contestualmente viene stabilito un recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto, a ogni fine contrattuale nonché per la determinazione della massa salariale per i contratti collettivi nazionali”.
I lavoratori del terzo blocco, quindi, non hanno più la trattenuta previdenziale del 2,50% sull’80% della retribuzione, bensì una riduzione della retribuzione lorda di importo equivalente alla vecchia trattenuta. Tale riduzione, tuttavia, non ha alcuna incidenza sull’imponibile pensionistico e sull’imponibile fiscale, ma serve semplicemente a “riallineare le retribuzioni nette”.
Ed è proprio su questa platea che sono intervenuti i più recenti pronunciamenti, in particolare da parte del Tribunale di Treviso (sentenza n° 104 del 11 luglio 2014) e del Tribunale di Padova (sentenza n° 948 del 18 dicembre 2015), la prima che ha visto soccombente il Ministero dell’Università, Istruzione e Ricerca, la seconda che ha visto soccombente l’Università degli studi di Padova.
Tali sentenze hanno in comune un vizio, quello cioè di prendere per “oro colato” la ricostruzione normativa che ha compiuto la Corte Costituzionale, soprattutto con la prima sentenza, non rendendosi conto che tale ricostruzione era “compatibile” con lo scenario introdotto dalla norma del 2010, poi revocata, ma nulla ha a che vedere con il “vero regime del TFR” introdotto a partire dal 2001.
Ed è proprio a partire da tale errato assunto che le due sentenze motivano univocamente con una la sola “discriminazione fra lavoratori pubblici e lavoratori privati”.
Oggi però abbiamo sostanzialmente due problemi che rendono l’argomento di estrema attualità e contraddittorietà.
Quello più delicato è rappresentato dal fatto che non vi è nulla di più dirompente degli effetti economici di una sentenza che viene applicata ad alcuni soggetti e che altri pretendono di usare in identico modo.
Nel nostro ordinamento giudiziario, infatti, le sentenze di merito soggiacciono al principio di provvisoria esecutività, e al di là quindi dell’esito dell’eventuale successivo grado di giudizio vanno applicate. E’ significativo in tal senso il fatto che il CINECA abbia dovuto modificare le proprie procedure di gestione delle paghe in attuazione della sentenza di Padova.
La vera cosa auspicabile è che le amministrazioni soccombenti non lascino passare definitivamente in giudicato quelle sentenze e cerchino in qualche modo di provocare un giudizio di legittimità fino a coinvolgere quindi la Corte di Cassazione.
La cosa contraddittoria è rappresentata dall’atteggiamento di talune organizzazioni sindacali.
Vale la pena ricordare che l’accordo quadro di luglio 1999 è stato siglato dalle seguenti organizzazioni sindacali: CGIL, CISL, UIL, CONFSAL, CISAL, CONFEDIR, RdB/CUB, CIDA, UGL, COSMED, così come è opportuno sottolineare che nessuna della sigle elencate ha inserito note o dichiarazioni a verbale in sede di accordo che mettessero minimamente in discussione i principi attorno ai quali è stato introdotto il TFR.
Ebbene, vedere oggi alcune di quelle sigle cavalcare la “tigre” delle sentenze per rivendicare non ben precisati benefici, senza avere il coraggio politico di denunciare l’accordo allora unanimemente sottoscritto, appare semplicemente contraddittorio.
Non sono alcune tessere in più portate a casa redigendo determinati ricorsi che fanno di quella organizzazione sindacale il portatore degli interessi veri dei lavoratori, anzi a volte sembrano coltivare maggiormente gli interessi economici di qualche studio legale.