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Dott. Villiam Zanoni

Cessazioni pubblici dipendenti: qualche risposta dalla giurisprudenza

pensioniprevSono uscite nei giorni scorsi alcune sentenze, un po’ in sordina, che hanno forse scritto la parola fine in ordine ai più recenti provvedimenti che hanno coinvolto i pubblici dipendenti in relazione ai meccanismi di collocamento a riposo. Due di queste, in particolare, (Cassazione n° 11595/2016 e n° 11859/2016) hanno avuto ad oggetto la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 72, comma 11, del D.L. n° 112/2008 e, pur con esiti diversi, sono state incernierate incidentalmente su alcuni elementi comuni. La fattispecie relativa alla prima sentenza riguardava 2 lavoratori licenziati nel 2008 a fronte della esistenza dei 40 anni di contribuzione, i quali hanno contestato la illegittimità del provvedimento sia in relazione alla normativa italiana, sia in relazione alla normativa comunitaria.

Il provvedimento, infatti, era privo di motivazione, ma soprattutto, secondo i ricorrenti, era in contrasto con la normativa comunitaria che vieta qualsiasi discriminazione basata sull’età, ritenendo tale anche una discriminazione basata sull’anzianità contributiva.

Nell’esame di questo secondo vizio di legittimità la sentenza richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale in effetti anche l’anzianità contributiva può essa stessa apparire come un discriminazione di età, tuttavia ciò non impedisce al legislatore di prevedere norme diverse a fronte di particolari situazioni.

Affinché questa situazione possa essere verificata, è però necessario che i provvedimenti conseguenti rispettino alcuni criteri che solo una struttura regolamentare può garantire affinché la motivazione addotta sia conforme al regolamento stesso.

E qui entra in campo il primo motivo di contenzioso poiché la illegittimità del provvedimento deriverebbe proprio dalla mancanza di motivazione.

Viene fra l’altro sottolineato che è vero che l’obbligo di motivazione è stato formalmente inserito solo nell’ultima stesura della normativa, ma per le motivazioni sopra evidenziate si rende necessaria in tutti casi.

E’ proprio sulla base di quelle motivazioni che la Corte cassa la sentenza della Corte d’Appello di Milano.

Quindi, in assenza di regolamentazione fissata dall’amministrazione, il provvedimento è legittimo solo se contiene una adeguata motivazione.

La seconda sentenza riguarda invece un lavoratore che è stato destinatario del provvedimento di risoluzione unilaterale sulla base dei 40 anni già maturati alla data del 31.12.2011, e che anzi era già stato collocato a riposo dal 1° settembre 1991 ma era rimasto in servizio un ulteriore anno in accoglimento di una sua esplicita richiesta ed in seguito ulteriormente collocato a riposo dal 1° settembre 2012.

Anche in questo caso il lavoratore eccepiva la illegittimità del provvedimento sia sulla base della normativa nazione, sia sulla base della normativa comunitaria, lamentando anche il difetto di motivazione.

Anche in questo caso la Cassazione compie la identica valutazione dell’impatto sulle norme comunitarie e anche in questo caso non rileva la violazione del divieto di discriminazione.

Rispetto all’altra sentenza sopra citata qui viene invece rigettato il ricorso del lavoratore sulla base di due precise obiezioni.

Da un lato riafferma il principio in base al quale a fronte di un diritto a pensione maturato alla data del 31.12.2011 è assolutamente legittimo che la risoluzione unilaterale faccia riferimento ai criteri antecedente la riforma Fornero, quindi è corretto che l’amministrazione avesse disposto il licenziamento con i 40 anni.

Quanto al difetto di motivazione la Cassazione rileva che il MIUR si è dotata di una regolamentazione sulla base della quale i dirigenti scolastici individuano i soggetti da collocare a riposo in funzione delle motivazioni organizzative e funzionali e per tale motivo è all’interno di quel processo che trova legittimazione il provvedimento.

Un’altra novità arriva invece dalla Corte Costituzionale che con la sentenza n° 133/2016 ha ritenuto non fondate una serie di questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 1, commi 1, 2 e 3, del Decreto Legge n° 90/2014, convertito in legge n° 114/2014.

Si tratta di quelle disposizioni che nel 2014 hanno chiuso un lungo capitolo durato oltre 20 anni relativo al trattenimento in servizio dei pubblici dipendenti per un biennio oltre il limite di età ordina mentale.

L’articolo 16 del decreto legislativo n° 503/1992, infatti, aveva introdotto il linea generale il diritto dei pubblici dipendenti a rimanere in servizio per un biennio oltre il limite di età ordinamentale e tale diritto, ancorché fruibile a domanda, era esercitabile senza alcuna condizione, né era possibile limitarlo da parte della pubblica amministrazione.

Solo nel 2008 la riforma Brunetta aveva riscritto la norma originaria mantenendo l’istituito, ma limitandolo ad una esplicita richiesta del lavoratore esercitabile entro determinati termini (dai 24 ai 12 mesi antecedenti la data di compimento dell’età ordinamentale), e soprattutto accoglibile da parte da parte delle pubblica amministrazione sulla base di esigenze organizzative e funzionali in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente.

Nel 2010, infine, fu introdotta l’ulteriore limitazione in funzione della quale, a partire dal 1° gennaio 2011, i trattenimenti in servizio sarebbero stato possibili solo da parte di quelle amministrazione che avevano disponibilità di assunzione, nel senso che il trattenimento fu assimilato in tutto e per tutto ad un nuova assunzione.

Ebbene, su questo scenario intervenne appunto il D.L. n° 90/2014, convertito in legge n° 114/2014 che da un lato ha abrogato l’originario articolo 16 del D.Lgs,. n° 502/1992, ma soprattutto ha sancito la cessazione obbligatoria anticipata di molti dei trattenimenti in essere e l’inefficacia dei provvedimenti già adottati ma non ancora operativi alla data di entrata in vigore del D.L. n° 90/2014 (25 giugno 2014).

La cessazione dei trattenimenti in essere ebbe diverse date di efficacia: 31 agosto 2014 per il personale delle scuola, 31 ottobre 2014 per la generalità degli altri dipendenti pubblici, 31 dicembre 2015 per i magistrati.

Proprio perché il provvedimento ebbe effetti anche su situazioni già in essere, alcuni dipendenti pubblici ritennero illegittimo quel provvedimento impugnando la norma stessa e oggettivamente ci si attendeva che la Corte Costituzionale emettesse un giudizio che ricalcasse alcuni precedenti in parte similari.

Nel 2007, infatti, uscì una norma (articolo 2, comma 434, della legge 24 dicembre 2007, n° 244) con un effetto duplice: da un lato abrogò il collocamento fuori ruolo dei docenti universitari, e dall’altro lato ne ridusse la durata per coloro che già erano stati collocati in quella posizione.

Ebbene, una analogo contenzioso portò ad una sentenza della Corte Costituzionale (n° 236/2009) con la quale fu assolta la norma per quanto riguardava gli effetti futuri, ma fu dichiarata illegittima nella parte in cui, avendo efficacia retroattiva, andava ad incidere sugli affidamenti di ciascuno.

Temevamo un analogo atteggiamento, ma stavolta la Corte ha sciolto ogni dubbio dichiarando totalmente legittimo tutto il nuovo impianto normativo anche nei confronti dei magistrati che più di ogni altro lamentavano una inesistente disparità di trattamento.

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