In attuazione di quella delega è poi stato varato il decreto legislativo n° 80 del 15 giugno 2015 entrato in vigore il 25 giugno 2015.
Diverse sono state le innovazioni introdotte attraverso specifiche modifiche a diversi articolo del Testo Unico sulla maternità (Decreto Legislativo n° 151/2001).
Fra queste modifiche avevamo apprezzato in particolare quella che l’articolo 2 del decreto ha apportato all’articolo 16, comma 1, del citato Testo Unico e che riportiamo nel testo originario ed in quello risultante dopo la suddetta modifica:
Vecchio testo:
“1. È vietato adibire al lavoro le donne:
a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all’articolo 20;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all’articolo 20;
d) durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto.”
Nuovo testo:
1. È vietato adibire al lavoro le donne:
a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all’articolo 20;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all’articolo 20;
d) durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi di cui alle lettere a) e c) superi il limite complessivo di cinque mesi.”
L’accoglienza positiva a tale modifica derivava dal fatto che l’INPS, in applicazione della norma originaria, aveva dato istruzioni alle sedi di non concedere il prolungamento del periodo post parto di 3 mesi nel caso in cui la sommatoria del periodo fruito ante parto e di quello post parto fosse già pari o superiore ai canonici 5 mesi.
Se, ad esempio, la data presunta del parto fosse stata il 30 giugno e la data reale il 20 giugno, in assenza di anticipata interdizione avremmo avuto l’inizio della maternità il 30 aprile e la fine il 30 settembre, aggiungendo ai 3 mesi post parto i 10 giorni non fruiti ante.
Se nella stessa condizione lavoratrice si fosse già assentata dal 30 aprile per effetto di una anticipata interdizione, la maternità si sarebbe chiusa il 20 settembre.
Ebbene, poiché la lettera d) così riscritta come sopra evidenziato non ha quantificato il tempo di anticipo dell’evento parto, avevamo tutti dato per scontato che nell’esempio sopra riportato avremmo sempre e comunque recuperato in coda i giorni non fruiti prima a causa dell’anticipo dell’evento.
A 10 mesi di distanza dall’entrata in vigore della nuova norma, l’INPS esce finalmente allo scoperto e a sorpresa cambia le carte in tavola.
Il 28 aprile 2016, infatti, è stata pubblicata la circolare n° 69 che in 13 pagine di istruzioni illustra le novità introdotte dal decreto legislativo n° 80/2015 in materia di congedo per maternità, ma è il punto 1 che ci ha proposto la sorpresa.
L’elemento di novità deriva dal fatto che l’INPS circoscrive l’applicazione della nuova norma ai parti “fortemente” prematuri, intendendo per tali quelli che avvengono prima dei 2 mesi antecedenti la data presunta del parto.
Solo a tali condizioni, infatti, la sommatoria dei periodi complessivamente fruiti prima e dopo il parto consentirà di aggiungere i giorni di prematurità al periodo post parto ancorché si vada a superare la durata complessiva di 5 mesi.
Ammettiamo la sorpresa, così come ammettiamo di avere a suo tempo sopravvalutato la portata della normativa, e ce ne accorgiamo oggi, alla luce della circolare, andando a scavare negli atti istruttori e nell’iter del provvedimento.
Quando il Governo varò il primo schema di decreto legislativo e lo inoltrò alle Camere per il parere di competenza, allegò la relazione illustrativa e la relazione tecnica dalla quale emergono in verità le cose scritte dall’INPS.
Nella relazione illustrativa, infatti, paradossalmente si sottolinea come “la precisazione si riferisca ai casi patologici di parti fortemente prematuri, in cui il bambino nasce più di due mesi prima dell’inizio del congedo obbligatorio”, mentre dalla relazione tecnica viene fuori quanto sia inconsistente l’efficacia della nuova normativa.
La relazione tecnica, infatti, nella sintesi della norma non pone limitazioni temporali, ma nella quantificazione degli oneri rinvia ad un rapporto del 2008 dell’Istituto Superiore di Sanità dal quale si evince che per quell’anno i parti avvenuti in Italia prima della 29a settimana di gravidanza sono stati, udite udite, 56, la metà dei quali (quindi 28) attribuiti a lavoratrici dipendenti.
Stiamo quindi parlando di ipotetiche 28 lavoratrici italiane che potrebbero beneficiare della nuova normativa, per un costo stimato su base annua di 96.000 euro (68.000 euro per maggiore indennità e 28.000 euro per maggiore contribuzione figurativa).
La domanda vera però alla fine è la seguente: è sufficiente che il legislatore (o il Governo) avesse esplicitato le sue intenzioni nei limiti di cui sopra per arrivare a tracciare una interpretazione quale quella contenuta nella circolare, ma non scritta nella legge?
Alle aule dei tribunali l’ardua sentenza.